Il Foglio Weekend

Brescia, il successo, la scrittura: a tu per tu con Fabio Volo

Michele Masneri

Un programma in radio, il piano B di aprire una bakery in America, un nuovo libro in uscita. Parla Fabio Bonetti da Brescia, un posto che è “come Detroit”, tutto lavoro, successo e auto

Fabio Volo è appena tornato da New York. Fabio Volo ha fatto un altro film. Fabio Volo ha sfornato il suo undicesimo libro. Fabio Volo fa colazione dopo la consueta ora di diretta di radio a ruota libera. Fabio Volo a incontrarlo sembra un déjà vu, un piccolo classico, è in giro da un quarto di secolo, è stato Iena, conduttore televisivo e radiofonico, attore di cinema candidato al David di Donatello, scrittore di successo estremo e urticante per gli altri scriventi. Una specie di Gianni Morandi, per la nostra generazione. Mai uno scandalo, una polemica, sembra venir fuori da un’altra epoca, quando lo scandalo era presentarsi nudo col microfono in mano. Oggi, roba da piccolo coro dell’Antoniano.

 

Abbiamo entrambi quasi cinquant’anni, e, seppur conterranei, non ci siamo mai conosciuti, mi sembra invece di conoscerlo da sempre. Mette un grande entusiasmo a salutare il barista e gli avventori, così come in tutto quello che fa. In un vecchio bar davanti alla sede di Radio Dj: “solo carboidrati, panini e focacce. Io invece mangio le uova la mattina. O banane”, dice Volo, non lamentandosi, perché questo bravo ragazzo lombardo e un po’ americano dà l’idea di non lamentarsi mai, ma anche di una disciplina ferrea. Siccome non ci sono le banane non prende niente. Gli racconto che tento di fare la stessa dieta anch’io, e sto leggendo un libro di Mario Vargas Llosa, che racconta il ruolo della Chiquita nei colpi di stato americani in Sudamerica negli anni Cinquanta. “Ma oggi è tutto marketing”, dice subito lui, sorridente con  occhi allegri e malinconici, più rassegnato che indignato. “Nella politica. Nel cinema. Nella musica. Non parliamo di Instagram e della televisione. La parola d’ordine è posizionamento. Ogni mattina devi dire la tua sulla polemica del giorno. Questa settimana c’è stata la palpata di culo della giornalista sportiva. Ma già tra qualche giorno sarà passata. Non è che le puoi seguire tutte. C’è la settimana del design, quella del vino, poi quella contro il razzismo. Ma quando qualcuno mette la faccia o la mano è sempre per tematiche che ti danno un ritorno, temi cool. E se non segui la polemica del giorno, se non fai il segno sulla faccia per la violenza nelle donne, sei automaticamente pro-violenza. E’ come il cacao sul cappuccino”. Quale cacao? “C’è un racconto di Francesco Piccolo in cui, a un certo punto, ci si accorge che il cacao sul cappuccino hanno cominciato a mettertelo in automatico, sei tu che devi dire di no, come gli abbonamenti che ti ritrovi a tua insaputa e per disdirli devi mandare la raccomandata. Mi arrivano i messaggi, ‘mi hai deluso’, come se io fossi a favore della violenza. Devi schierarti fare per forza”. 

 

A proposito di cappuccino e di carboidrati. Hai panificato anche tu durante i lockdown? Col tuo know-how… “Molte focacce”, dice, questo simpatico bresciano-globale, tatuato e in forma come i cinquantenni di oggi, bianco-cis-etero, e però temprato dalla contemporaneità, non solo niente carboidrati ma uso di psicanalisti e personal trainer. Forse la fortuna sta nel nome d’arte: volare, oh, oh. Lui come tutte le star di lungo corso ha cercato le vie di fuga: l’accento bresciano si è ormai perso via tra le tante città in cui ha vissuto e viaggiato (Milano, Roma, New York). Però puoi togliere il ragazzo dal ghetto, eccetera.

 

“Panificio Mantovano, si chiamava, accanto alla Fiat e alla ferramenta di viale Venezia, a Brescia. Mio papà faceva le pizzette piccoline”. E tu sai fare tutto? “Le torte da panificio sì, crostate, sbrisolona, anche cose con le creme”. Scusa ma perché non apri una bakery, a questo punto? Sei pure tutto tatuato, sei perfetto. “Tu scherzi, ma io continuo a pensarci. E’ il mio piano B. Avevo anche disegnato il logo, ma il locale costava troppo, sessantamila dollari al mese. E’ ancora il mio sogno aprire in America. Un locale a cavallo tra caffè e panificio. Forse adesso che col Covid tanti hanno chiuso magari son scesi gli affitti. E poi ora con l’elogio di Walter Siti la chiudo qui, in bellezza”. Perché nel frattempo è uscito un altro libro suo, l'undicesimo in vent’anni (il primo nel 2001), si chiama “Una vita nuova”, e adesso Siti l’ha pure promosso, o almeno preso, per la prima volta, sul serio, come scrittore.  

 

“Sono vent’anni che mi danno addosso, adesso vuoi vedere che proprio nel momento che mi son rilassato mi arriva la mazzata?”.  Però Siti ti prendeva un po’ in giro. Dice che hai un’anima Ikea. “Ma anche l’Ikea ormai è un classico. C’è gente che si compra il vintage Ikea. Ecco, io sono il vintage Ikea”. Qual è il segreto di questi libri così coerenti, così aderenti al  personaggio Fabio Volo? “Rimanere fermo. Non scimmiottare. Quando venivo a Milano le prime volte era tosta, dalla provincia, e mi vestivo di nero, perché ritenevo che a Milano bisognasse vestirsi di nero. Il risultato è che sembravo un becchino. Invece coi libri, ma anche coi miei programmi, in radio e in tv, io sono rimasto sempre uguale, sempre me stesso. Poi tanto le mode passano, e a un certo punto ti ritrovi (e qui citiamo un suo titolo), il tuo posto nel mondo. Otto milioni di copie vendute. Ci saranno scrittori che si sono suicidati per colpa tua. “Baricco una volta è venuto in trasmissione da me, gli ho chiesto, spero che non mi odi: e lui: no, ho venduto abbastanza per non odiarti”. Dai, chi è che ti odia? Dicci un nome. Non lo dice. La Murgia? Disse che i tuoi non son libri, son libroidi. “Ma no, anche lei lo faceva per marketing. La teoria del nano e del gigante, la sai no? L’hai detto dalla Bignardi una volta: attaccare qualcuno di più grosso, per farsi pubblicità. ‘Niente di personale’”. 

 

Che offrirebbe nella sua catena di panetterie americane? Avocado toast? “Ancora meglio. Tunacado. Panino nero secco croccante col pesto e l’avocado tuna e il pomodoro, buonissimo”. Iginio Massari sarà geloso, il pasticcere bresciano più famoso d’Italia, se apri la bakery. Potreste fare un contest insieme. “No, mi cazzierebbe subito. E’ anche l’uomo con meno collo d’Italia. "Eh, infatti non so come fa a piegare le federe dei cuscini, senza collo”. E ride. Cosa sta leggendo Fabio Volo? “Ora un poeta sufi". E in generale? "Tutto tranne i gialli”. Che a parte te sono gli unici che vendono, commissari di ogni genere o tipo, procuratrici pugliesi. Zerocalcare? “Non lo conosco, non l’ho letto, credo sia molto bravo”. Quando scrivi? “La mattina quando mi sveglio”. Non hai un ghost writer? “No, ma ho una brava editor, Alessandra. E sono abbastanza libero, decido tutto io, anche i titoli, anche le copertine, anche le foto, vedi, questo è il muro della mia cucina, fotografato col modellino di 850 spider, e il cuscino appoggiato sul bidone della differenziata. Secondo me è chi scrive la storia che deve fare la copertina”. Mi ricordi Andrea De Carlo, sia per la scrittura legata al quotidiano, che per l’autoproduzione delle copertine. “Forse, sì, ho letto Due di due”.  Fatturi anche sulla copertina. “No, no, quella non me la pagano”. La 850 spider in copertina c’entra col romanzo, è la macchina che il padre del protagonista ha venduto, e che vorrebbe indietro, e lui la ritrova, lontano, a Ceglie Messapica, in Puglia. “Ci vado spesso a trovare un caro amico. Lì fanno il famoso panino cegliese, mortadella, tonno, provolone e capperi”. Meglio Cegliese o Tunacado? Italia o America?

 

Meglio Milano. “Sono venuto negli anni Novanta quando tutti dicevano che faceva schifo. Milano è come New York. Ti integri, c’è un posto per tutti, anche come diritti, col sindaco Sala, puoi essere pugliese, calabrese, gay o nero. L’unica cosa che non mi piace è lo smog, però mi sembra l’unica città europea d’Italia”. A parte Brescia. “Ovvio. Brescia è più internazionale. I bresciani sono ovunque, a Cuba, a Santo Domingo…”.  Ride. Tu hai dato una bellissima definizione di politicamente corretto: hai raccontato di una sera che eri andato a cena con un amico gay che aveva fatto “una di quelle battute che però possono fare solo i gay su loro stessi”, poi l’hai ripetuta in radio tu e ti hanno massacrato. “Sì, li ho capito che io posso parlar male dei bresciani perché sono bresciano, mentre non posso parlar male di Napoli, ci sta. Molti invece pensano che libertà di pensiero sia dire tutto quello che ti passa per la testa”. 

 

Però, certo, tutto questo successo, questo sì che è scorretto, nel paese dove l’unica dittatura accertata è quella dell’invidia sociale. “All’inizio ero tollerato, primo libro 70 mila copie, secondo 130, dal terzo 300 mila copie". Cresceva l’odio. "Se vendi tanto vanno fuori di testa”. Il contrario dell’America. Lì se hai successo son contenti. “In Italia dipende: se Bonolis usa l’aereo privato lo mettono in croce, ma se lo usano Vacchi o Lapo va bene. Perché i soldi devi averceli di famiglia. Se li fai da solo c’è sempre l’idea che li hai rubati a qualcun altro, e soprattutto ricordi a tutti che essere nati poveri non è una scusa per non aver combinato un tubo”.

 

Brescia però è un po’ America. “Brescia è Detroit quando andava bene l’industria dell’auto. Tanto lavoro, soldi, ascensore sociale. Io avevo gli zii che nel weekend facevano i lavoretti extra, perché mica puoi star senza lavorare. Un’estate andai da una zia che assemblava lampade da giardino, nel garage, e mi dava i soldi. L’estate dopo, faceva guarnizioni di gomma. Doppi e tripli lavori”. Status symbol eterni: “dei miei amici di Brescia nessuno prende l’autobus. E’ vista come un’onta. Al bresciano piace mangiare tenendo d’occhio la macchina parcheggiata. Io non ce l’avevo una macchina, poi, quando sono diventato un po’ famoso, mi son comprato tipo la Renault Scenic, e i miei amici mi hanno messo in croce: ma perché non hai la Bmw, o almeno la Audi! Dicono che sono tirchio”. A Brescia, negli anni Ottanta, la lunga gavetta del panettiere Fabio Luigi Bonetti, prima d’essere Volo. Le discoteche: l’Altaluna, citato anche in quest’ultimo romanzo, che diventò Miro’ e poi Shibuia. “Facevo il p.r. Regalavo i biglietti alle commesse, e dentro alla discoteca i free drink”. Al Sesto Senso, solo una volta, regno di Jerry Calà, dove un genio degli affari aveva messo su un autonoleggio che ti dava la Lamborghini per fare gli ultimi cento metri. Al Paradiso (“il Para”); Il Cityclub la domenica pomeriggio, “Andavo col bus numero tre”. “Al Number One, dove ci si picchiava. Ci andavano i milanesi, i bergamaschi, e i meridionali. Poi il Mazoom. Le Cinéma con le cubiste. E il martedì al Genux con un tale dj Tozzo”. Ma andavi per lavorare o perché ti piaceva? “No, no, per divertirmi. Uscivo dalla discoteca e andavo direttamente in panetteria da mio padre. Poi alle cinque arrivavano i miei amici per la colazione”. Sempre farinacei.  

 

E poi Fabio Luigi Bonetti paninaro. Allignavano davanti al cinema Crocera, sul corso Zanardelli. “Finii anche in un servizio sui paninari a Brescia. Che avevi? La cintura del Charro? “No, perché non avevamo una lira, solo le calze Burlington, era l’unica cosa che mi potevo permettere”. A Brescia, il Bonetti cantava, “in questo locale di Karaoke dietro il parco Ducos, si chiamava Retro, ora c’è un negozio di fiori. Ero il Fiorello del Retro, e per qualche motivo rimorchiavo, c’è una parte di donne che perdono la testa per l’uomo che canta, non so perché. E poi il grande salto. La Mediarecord mi chiama perché serviva una voce per una pubblicità del Teledrin, ti ricordi, l’antesignano dei telefonini. Poi ho scritto una canzone che si chiamava “Volo”, da cui il nome, e la canzone finisce a Radiocapital con Cecchetto, e da lì comincia la radio. Cecchetto mi porta a Milano due settimane, per non fare niente. Solo guardare e osservare. Cecchetto aveva questa teoria della pianta grassa: tu fai la pianta grassa, immobile, seduto, solo a respirare quell’aria".  

 

Poi la pianta si secca. "Sai, io per scrivere uso la tecnica del viaggio dell’eroe", dunque serve un crollo per innescare l’avventura, ed ecco il crollo. Cecchetto se ne va, e allora mi sembra tutto finito, all’amministratore delegato gli dico, datemi altri due mesi di stipendio e me ne vado. Quindi sono andato a Londra a fare il lavapiatti, perché volevo imparare l’inglese. Poi torno e vado a Verona a fare MatchMusic”. Ma tutta questa intraprendenza da dove arriva? “Brescia! Se ci vedi in ginocchio è perché stiamo raccogliendo i funghi”. Ride. 

 

Però tuo papà mi pare un tema importante. Lo descrivi sempre come cupo, un po’ infelice. Qui si fa serio. “Democristiano, poi diventato berlusconiano: un sacco di discussioni, ma tendenzialmente introverso. Mi diceva sempre: se vuoi lavorare lavori, se vuoi studiare studi, fai quello che vuoi, basta che non stai a casa a fare niente. In bresciano “basta che te stet mia a casa a fa un casso”. Hai fatto il chierichetto. “Sì fino a quattordici anni”. Abusato? Molestato? “Macché, anzi, eravamo noi che volevamo molestare don Fulvio, eravamo tutti innamorati di lui”. Quindi non puoi scrivere un’autobiografia. “No, me l’hanno chiesto già anni fa. Dopo Open di Agassi son tutti pazzi per le autobiografie. Addirittura in coppia. La Mondadori fece quella di Panatta e Paolo Villaggio insieme”. Hai anche un film, al cinema, "Per tutta la vita" di Paolo Costella. Ma un bel podcast? “Ma sto sempre alla radio. E’ come se facessi un podcast continuo”.  

 

 

Tu sei sempre stato un precursore: prima i libri da non scrittore; che oggi li fanno tutti; poi la serie su te stesso, “Untraditional”, che adesso fanno tutti, i Ferragnez, Verdone. “E Bisio. Mi dicevano: ma perché una serie sulla tua vita? Non riuscivo a spiegarglielo”.  Tua sorella fa l’operaia e ha sposato un musulmano. “Sì, ma si è separata. Siamo sempre precursori, come vedi”. E Fedez, che ne pensi? “Che è molto bravo col marketing, come dicevamo prima”. Però non ti sembra che rispetto ai tempi nostri è un po’ saltato tutto? Il giornalista fa l’influencer, l’attore fa i libri, lo scrittore fa il virologo... "Son saltati i soldi”, fa lui con slancio bresciano. “Se fai il cantante ormai non guadagni abbastanza, con Spotify le estati si son riempite di tour, e le tv di cantanti che fanno i giudici nei reality”. E la tv, non ne hai più voglia? “Ma la tv come piaceva farla a me non si fa più: potrei aspirare una seconda serata, ma anche lì son finiti i soldi, non puoi prendere gli ospiti, verrebbero solo gratis, verrebbe solo chi ha qualcosa da promuovere”. Insomma, il rischio drammatico è di ritrovarsi circondato da scrittori.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).