Il Foglio del Weekend

Orgoglio e coming out. Storia breve di un atto privato che diventa pubblico e politico

Michele Masneri

Alla fine arrivò pure l’emozionato Vincenzo Spadafora, in tv di fronte a Fabio Fazio e milioni di telespettatori. Così un momento intimo, “inventato” negli anni Trenta, diventa collettivo. Non solo in politica, ma al cinema e nello sport. Ultima frontiera? Il calcio

Ha emozionato quello di Vincenzo Spadafora, già ministro dello Sport, con la voce rotta, in diretta televisiva da Fazio, presentando il suo libro. E in quasi contemporanea quello di Alberto Matano, conduttore Rai, due quasi-coming out, perché in molti si sapeva, eppure desta ancora impressione, e critica, e insieme quel “chissenefrega” un po’ isterico che arriva sempre sui famigerati social, a segnalare invece che se ce ne fosse bisogno a qualcuno frega, e che insomma un problema c’è eccome, non solo di comprensione, linguistica, nel paese che poi il giorno dopo parla, bene o male, di “outing”, confondendolo, come sempre, anche se le due cose come si sa sono opposte, una è la autodenuncia orgogliosa, l’altro la soffiata che sputtana.

 

E però c’è tutto un sommovimento e un sobbollimento in quest’autunno di coming out, come se ci fosse un controcanto al dibattito sullo Zan improvvisamente zittito. Forse le coscienze, o le malecoscienze, collettive o di area, sobbollono, ma qualcosa è in pentola, in tutto questo silenzio seguito alla battaglia asperrima e allo spettacolo tragico dei senatori plaudenti, e Luigi Di Maio è andato in televisione varie volte a fare l’opposto di un coming out, un coming in. Anche lui col suo libro. Non sono omosessuale, ha detto dalla Gruber, che perfidamente lo incalzava, che poi no, certo, non sarebbe un problema, e però lui proprio non ce l’ha fatta a fare una battuta come ormai tutti hanno imparato da Hollywood in giù, “purtroppo”: ha studiato molto, anche l’inglese, ma non è Harry Styles. Ci tiene invece tantissimo a dire che ha una fidanzata, più vera del vero, e non cartonata (a proposito, la non cartonata ha presentato anche lei il suo primo libro, “Il suono della bellezza. Note di vita e filosofia”, IF press), al Circolo canottieri Aniene, con la principessa Ira Fürstenberg. Insomma, Roma in purezza.

 

E Roma, certo, non è proprio il posto ideale per i coming out. Soprattutto non tra i palazzi: al di là dei soliti e defatiganti conteggi di chi è e chi non è gay in Parlamento. Arbasino raccontava già del solito ministro Emilio Colombo che sussurrava a un camerierino del Toulà “la notte non dormo e penso a te”, e quello rispondeva: “pensi piuttosto all’Italia, ecelensa, pensi piuttosto all’Italia”. E Arbasino stesso del resto pur supremo perfezionista della lingua confondeva il coming out con l’outing, anzi “l’esibitivo outing”, perché secondo tutta una corrente di pensiero generazionale non ci sarebbe proprio niente da dichiarare, come se fosse uno  sfogo, come a fare del protagonismo, mentre invece si sa che è sempre dura, è il contrario del “fatelo a casa vostra”. “Se proprio mi devo definire, preferisco porschista, perché tengo molto più in mano il cambio della mia 911 che non un membro maschile”, diceva. E però il Dio del coming out, spietato, lo punì, con un brutto incidente stradale.

 

“Se non ci si aiuta tra noi spider”, dice la protagonista in panne della sua “Bella di Lodi”, e rimanendo in tema automobilistico,  Arbasino e Pasolini pur su posizioni diversissime su molte questioni, convergevano però, oltre che nella passione per le auto potenti, sulla nostalgia per un mondo sognato di omosessualità soprattutto ginnica senza bisogno di definizioni, in una capitale costellata di chiappone marmoree e putti e puttini under age. Una città e un Paese “dove mancava il Vocabolo, e dunque il Concetto, e a maggior ragione la Cosa; in trattoria e in carrozza e in barca anche con dieci in divisa, e la gente non vedeva o pensava al massimo che erano i dieci figli del tuo giardiniere, maschi maschissimi indaffarati a parlar di virilità l’uno sull’altro, me l’hanno assicurato tutti i superstiti”, sempre AA. Siccome il maschio italico non poteva esser sospettato di covare il tremendo vizio, non c’erano neanche mai state leggi che lo punissero.

 

Però certo certe cose era meglio farle a casa propria, e di nuovo i politici, non solo democristiani, han sempre fatto una vitaccia, se, come racconta Angelo Pezzana, il fondatore del Fuori (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario), anche Togliatti chiamava crudelmente un pezzo grosso del partito come Pietro Secchia “la secchia bucata”, e le carriere generalmente filavano lisce finché il “vizietto”, per usare l’orrida parola, restava nascosto: e sempre un ottimo asset di sfottò e di ricatto. I dossier si sprecavano; leggendari quelli dell’Ovra, la polizia fascista, sul futuro Re Umberto, nome  in codice “stelàsa”, che distribuiva gioielli da lui disegnati non solo ai meglio corazzieri ma anche ad atleti top come Primo Carnera.

 

Già, gli atleti: quello dello sport rimane il settore più difficile in cui venir fuori, e nello specifico il calcio. Il nuoto è stato abbastanza sdoganato, col campione Tom Daley che alle ultime olimpiadi sferruzzava allegramente a bordo piscina, e però quanta fatica aveva fatto pure lui quando nel 2013, dopo anni di pettegolezzi, annunciò: “la mia vita è cambiata enormemente quando ho incontrato qualcuno e mi hanno fatto sentire così felice, così sicuro e tutto è semplicemente fantastico. Quel qualcuno è un ragazzo”. L’ultimo avamposto rimane appunto il calcio, e si è dovuti aspettare il mese scorso per vedere il primo coming out di rango nel mondo del pallone. “Sono un calciatore e sono gay”, ha detto il centrocampista australiano Joshua Cavallo. “Sono stanco di dare il massimo e vivere questa doppia vita. È esasperante, qualcosa che non vorrei che qualcun altro vivesse”, ha raccontato, e probabilmente molti seguiranno il suo esempio, e non perché si sia diventati tutti omosessuali, come molti sospettano, dev’esserci un Rt altissimo, ma perché tanti appunto si son rotti di fingere e soffrire in silenzio. “Mi sono sempre nascosto – ha spiegato il giocatore - perché mi vergognavo di non poter fare ciò che amavo ed essere gay allo stesso tempo. Tutto ciò che volevo era giocare a calcio ed essere trattato come gli altri. Pensavo che le persone mi avrebbero visto in modo diverso dopo aver saputo questa cosa, che mi avrebbero trattato male o preso in giro, ma non è stato così. Le reazioni e il sostegno che ho ricevuto sono stati incredibili, mi sono chiesto perché mi sono nascosto così a lungo”.  

 

Venir fuori dall’armadio o dall’armadietto dello spogliatoio è particolarmente faticoso e ancor più arduo è il coming out trans (e le persone transgender devono generalmente farlo due volte, poracce, prima come gay e poi come trans, come è successo a Elliot Page, famoso per i suoi ruoli in “Juno,” “Hard Candy,” “Tallulah,”  e “Inception,” che nel 2014 si è dichiarata gay e poi nel 2020 trans). E che ne è delle atlete trans, creature fantasmatiche molto evocate durante i defatiganti mesi dello Zan? Erano i famosi maschi che, nello spauracchio di taluni, avrebbero cambiato sesso solo per sbaragliare le femmine bio in tutte le competizioni (o, in alternativa, per farsi incarcerare e poi violentare le suddette bio nel braccio femminile), e, si penserebbe, quanto sforzo per un obiettivo così incerto.

 

E basterebbe però vedere la sublime serie “Transparent” (Amazon), dove un vetusto professore d’università americano fa appunto coming out come trans e avvia la fatale transizione in donna, in un viaggio che abbatte tutti gli stereotipi prima della sua famiglia (è una storia vera) e poi dello spettatore. Continuerà infatti ad avere ottimi rapporti con la moglie e pure con le signore di cui cercherà la compagnia anche carnale. La famiglia del resto è il luogo d’elezione del coming out basico, quello non vip, senza libro da presentare, senza platea televisiva. E dunque ha vasta rappresentazione cinematografica e editoriale. Spesso avviene quando la famiglia è riunita, coi figli che scappati le mille miglia lontani per fuggire dal paesello e vivere più liberamente tornano, braccati dai parenti che chiedono: “e la fidanzatinaaaaa?”. Dunque in occasioni che sembrerebbero le meno adatte, pranzi di Natale o Ringraziamento a seconda delle tradizioni.

 

Nelle “Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek  il compianto industriale pastaio Ennio Fantastichini ha la bella pensata di riunire a tavola la famiglia sua e del suo socio, ma gli viene un mezzo coccolone quando il figlio maggiore, l’erede, il delfino, annuncia la sua omosessualità (battendo sul tempo il fratello minore, che voleva anche lui uscire allo scoperto in quella medesima tavolata, ma se ne astiene). Il coming out classico è quello figlio-genitori ma c’è anche quello opposto, quello genitori-figli. Uno piuttosto sconvolgente è quello del padre della protagonista Anna in “Girls”, leggendaria serie inventata e recitata da Lena Dunham, dove il padre chiederà all’amico gay della figlia istruzioni su come comportarsi in questa nuova “società”. E del resto l’espressione “coming out” nacque presa in prestito dal “coming out into society”, cioè i balli delle debuttanti. La prima volta che il termine fu usato in questo nuovo contesto fu nel 1931 e riferito ai balli in drag della New York dei primi del Novecento. Dunque l’idea che abbiamo noi oggi del “coming out” – spiega Maya De Leo in “Queer. Storia culturale della comunità Lgbt+” (Einaudi) – non riguarda tanto il venir fuori dal closet, cioè l’armadio, quella è un’ulteriore metafora che si aggiunse in seguito, ma piuttosto l’entrare in una società, una comunità di simili.

 

Non fa mai coming out e anzi subisce un outing postumo un genitore da tempo defunto nella serie “The White Lotus” Hbo poi Sky, che ufficialmente racconta l’interazione tra un gruppo di turisti americani altospendenti e il personale in un esclusivo resort havaiano, ma tra le righe è una magnifica analisi dello stato dell’arte (che parola!) sulla cancel culture in America. Famiglia abbiente assai riflessiva,  i Mossbacher, – la mamma lavora per un colosso web, la figlia sghirbia legge libri posizionali tra cui “Gender trouble” di Judith Butler, e si è portata un’amica sghirbia uguale ma posizionale nera da esibire. La famiglia è in preda al trouble di essere bianca e privilegiata e subisce tutte le fastidiose rivendicazioni della figlia e dell’amica della figlia nera, piena di malanni e fastidi (all’ennesimo la mamma sbotta: “Ma chi te l’ha diagnosticato, Lena Dunham?”).

 

L’amica nera alla fine decide che per restituire a un g.o. aitante nativo in sé non molto politicizzato e anzi recalcitrante i diritti del suo popolo usurpati dagli yankees egli dovrà rubare nella cassaforte degli yankees, e si innesca così una tragedia ma anche la ricostituzione della famiglia privilegiata disfunzionale. Il padre, sfessato e devirilizzato dalla moglie top manager e della figlia intersezionalista e dalla società tutta che lo schifa in quanto bianco etero fuorimoda, troverà finalmente una nuova identità, mentre il figlio bianco rintronato dai videogiochi e dall’iPhone trova finalmente il suo ubi consistam a pagaiare coi nativi havaiani nelle acque cristalline. Non c’è niente infatti per lui nella natia New York. “Sai, è un periodo molto difficile essere  un giovane maschio bianco eterosessuale, la mia azienda per esempio non ne assume più di persone così”, dice la mamma del suo pargolo.

 

E qui, cari lettori, prima di esaltarsi e organizzare sabba in cui si invoca Montanelli bruciando libri di Michela Murgia occorre un Italian Alert: ricordarsi che queste cose succedono in selezionate località degli Stati Uniti dove evidentemente la sbornia di politicamente corretto è arrivata a maturità (e le serie lo testimoniano); essendo in circolazione dagli anni Novanta come il gender e il suo trouble, corsi e ricorsi storici, mentre qui si è ancora agli inizi, siamo a Pio e Amedeo e alla dittatura percepita, come quella della mascherina (quanto tempo libero abbiamo e sprechiamo, in questo belpaese). E siamo dunque alle solite: un americano che venisse da noi penserebbe che abbiamo fatto già tutto il giro, abbattuto la cancel culture e le sbornie antirazziste estreme e rimesse su le statue, invece siamo rimasti fermi a prima, lì a segnare l’ora una volta al dì come gli orologi di via Nazionale.

 

“Una caratteristica della società americana è che cambia molto rapidamente, nel bene e nel male”, ha detto il politico gay più alto in grado d’America, il Segretario ai Trasporti Pete Buttigieg, già candidato alla Casa Bianca, commentando il suo coming out compiuto nel 2015 appena tornato dall’Afghanistan. “Ho lottato per anni con la mia sessualità, ma solo l’aver combattuto in guerra mi ha dato il coraggio di dichiararmi”, ha detto Buttigieg, già sindaco di South Bend nell’Indiana. “E poi avevo voglia di innamorarmi. Avevo trentatré anni, ero sindaco e veterano di guerra, e non ero stato mai innamorato”. Insomma, debutto in società in piena regola.

 

Ma tornando ai Mossbach, il padre svirilizzato è inizialmente convinto di avere un tumore perché gli è sempre stato detto che il padre suo, pezzo d’uomo integerrimo e macho, di tumore è morto, e invece scoprirà che di Aids il genitore perì, e che aveva una doppia vita molto peccaminosa, e lui ci rimarrà malissimo. Per nemesi lo svirilizzato viene molestato ripetutamente dal capo-villaggio esaurito che non ne può più delle esigenze dei turisti, e dunque sbrocca completamente, abbandonando ogni creanza (metafora anche lì della cultura dell’essere carini?). Lo impersona Murray Bartlett, già nel cast di “Looking”, leggendaria serie gheissima ambientata a San Francisco in cui Patrick, uno dei protagonisti, il suo coming out lo fa durante un pranzo appunto del Ringraziamento che non va proprio benissimo. A volte sono gay sia il padre che il figlio, come nella “Lingua perduta delle gru”, romanzo d’esordio di immane successo di David Leavitt, che in Italia uscì con prefazione di Fernanda Pivano. E lì il venticinquenne Philip Benjamin, intenzionato a fare coming out, non sa che lo aspetta però un padre gay anch’esso, Owen, insegnante represso da un rapporto fatto di finzioni con la moglie Rose. Famiglia di piccoli intellettuali in cui non ci si fanno tante domande e il papà nel closet che la domenica corre in un cinema porno, il Bijou.

 

“I miei genitori sono gente aperta. Non resteranno annientati dalla notizia” pensa Philip, non avendoci capito niente perché spesso i genitori radical e colti sono delle iene peggio dei fascistoni, come narrò Sebastiano Mauri qualche anno fa nel romanzo “Goditi il problema” (Rizzoli) raccontando quanto è dura venir fuori in una famigliona iperborghese e artistica milanese (certo, non ti menano e non ti sbattono in mezzo a una strada come in casi recenti di cronaca, però non son proprio felici). Sempre in Lombardia, tra le borghesie evolute, meglio la prenderà il padre cosmopolita e archeologo di “Chiamami col tuo nome”: quando il figlio comunica l’esser gay, il padre lascerà intendere “anch’io”, nell’atmosfera vagamente irreale del maniero avito, grazie ai filtri di un astuto direttore della fotografia tailandese, che ha anche lanciato inopinatamente Crema nelle meglio rotte turistiche internazionali.
 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).