Pio e Amedeo (foto LaPresse)

Dal dpcm alla dpc

Le due Italie che non si parlano, ostaggi di Fedez e Pio e Amedeo

Michele Masneri

Fra le accuse di censura del rapper alla Rai e la “Dittatura del pol. corr.” dei due comici pugliesi

Insomma si è capito quanto in molti sospettavamo, in Italia non c’è nessuna dittatura del politicamente corretto ma, al contrario, si può veramente dire “la qualunque”. Nel superbowl identitario italiano appena trascorso, ecco venerdì sera il colossale successo per la trasmissione elencatoria delle parole che non si potevano più dire, dicendole tutte, con trionfo del “politicamente scorretto” contro ogni bavaglio e cancel culture.  Dire la parola con la n per indicare le persone di colore e quella con la f per indicare i gay, in un sabba tanto tanto liberatorio e “fuori dal coro” era quello di cui il paese aveva bisogno, nel primo venerdì sera in cui si poteva uscire, e pioveva, e non c’erano più i dpcm con cui prendersela, ma ecco un nuovo fantasma contro cui lottare: la dittatura del politicamente corretto, d’ora in poi nel testo “dpc”.

 

E agli improvvidi che suggerivano: ma allora, perché non provare anche con una bella bestemmia televisiva? Così sì che sarebbero stati veramente trasgressivi e fuori dal coro. Pareva subito un’ipotesi impraticabile. Pio e Amedeo in un’intervista precisano infatti: siamo sì cattivissimi, ma seguaci di Padre Pio, come indica già il nome di uno dei due comici. E quell’altro? Sarà background monarchico? Comunque avant-garde pura per quei due succedanei di Zalone, mentre lo Zalone originale ormai imborghesito con bullismo lanciava lo stesso giorno il video vaccinale con Helen Mirren nel Salento più patrizio. 


Ma il giorno dopo ecco Fedez, tutt’altra costituency, Milano Citylife, nord operoso e fluido, e anche lì ecco una libertà totale di medium e messaggio, con medley di giustificazioni Rai e di dichiarazioni leghiste anche fantasiose (bella soprattutto quella delle iniezioni che ti fanno diventare gay, versione fantasy del complottismo 5g, indirizzata alla assessora comunale di Genova Elisa Serafini).


Domenica, tentativo di sintesi, con Salvini da Barbara D’Urso. Il weekend della Liberazione è stato un trionfo, per il paese provato dal Covid e dalla dpc, in una nazione peraltro reattiva e anti dittatura solo nel dibattito pubblico, feroce e sgangherato.  E chissà se le tv avranno venduto spazi pubblicitari “targhettizzati”, per esempio, agli spettatori di Pio e Amedeo, nostalgici di quei bei tempi in cui si poteva dire tutto, dunque – ci si immagina  – telefoni Brondi, montascale, telesalvalavita Beghelli (e il giorno dopo con Fedez, smalti, iPhone, tutine e scarpine). Dalla D’Urso, caffè Borbone.


E forse è solo un fatto generazionale, e se sul palco dello show “di destra” cantava Eros Ramazzotti, la figlia Aurora vituperava il tutto sui social (forse anche turbata dalla mamma strizza-occhi in “Striscia la notizia”). E se la Rai dice finalmente addio al blackface, in televisione e sui giornali, a commentare leggi “liberticide”, in generale vanno soprattutto vecchi maschi o femmine eterosessuali oppure utili omosessuali anziani con omofobie d’epoca interiorizzate, sopravvissuti a tanti bullizzamenti che dicono con nostalgia “non siamo come i panda!”, “ci piace tantissimo esser chiamati f”, e forse anche l’eventuale percossa non dispiacerebbe, con quel sapore vintage, oggi che il pugno in testa e l’insulto stradale rischiano l’aggravante (come quelli che han sofferto facendo il militare o la guerra tanti anni fa e rimpiangono un po’ quelle rudezze, perché legate agli anni belli. Poi però anche tanti utili giovani: e che sarà mai, qualche insulto a scuola. Ma a chi piace, giovani e vecchi, insultatori e insultati, nessuno proibisce di incontrarsi tra loro in serate ed eventi esclusivi, come già succede. Organizzatevi tra voi bdsm No Zan).


Anche Walter Siti, massimo e sublime scrittore gay, alla fine di una lunga riflessione su Domani: ma quale legge Zan, basta farsi una risata (purissima linea Pio/Amedeo, dunque). In generale, è un gran momento per gli anziani. E’ evidente che la lotta a questa dittatura li risolleva più dell’AstraZeneca; reclusi ormai da mesi ed esposti a host televisivi in onda 24 ore su 24 a protestare  che “non si può dire più nulla”, tutta una forza lavoro a cui non pare vero di rientrare finalmente “nel coro” dei “fuori dal coro”, facendo gli “scorretti”, dunque ambitissimi e attivissimi.

 

Dall’altra parte i Ferragnez, tra nuovi fantastici bebé che già sorridono in favore di iPhone e uova di Pasqua brandizzate, sempre più “politici” in modo americano, cioè appassionandosi di cause specifiche e senza nessuna intenzione di scendere in campo fuori da Citylife (anche se, come si era scritto qualche tempo fa, sono alla ricerca di consulenti politici, evidentemente perché ci hanno preso gusto).

 

E chi non ha seguito né il programma di destra del venerdì né quello di sinistra del sabato? Sarà corso in libreria ad accaparrarsi biografie di Philip Roth, oggetto del desiderio dpc in un paese di insospettabili esegeti del grande scrittore di Newark? Un paese con al massimo i libri di Bruno Vespa e le ricette di Benedetta Parodi nella libreria buona, improvvisamente scopertosi immenso book club di scrittori americani “contro” e loro biografi possibilmente zozzoni (la vita che imita l’arte). Qui però bisognerebbe interrogare le classifiche: quanto spinge l’effetto dpc su vendite e tirature? Meglio dello Strega o del Viareggio? Il libro di Guia Soncini per esempio ha venduto bene, oltre le  cinquemila copie, e in generale la dizione “politicamente scorretto” vede salire le vendite di qualunque manufatto, meglio di “gratis” o “nuovo”. Malissimo invece i “corretti”, con le povere poesie di Amanda Gorman ferme a millecinque.


Ove mai saltasse fuori poi qualche molestatore tra i letterati, il sospetto è poi che quel frisson in più porterebbe non già a cancellazioni – siamo uomini di mondo – ma a ripescaggi e rivisitazioni critiche. Ce li immaginiamo, agenti ed editori: ma siamo sicuri che quel Pascoli non avrà molestato i fanciullini? Manzoni con Enrichetta Blondel in quelle fatali notti al piano non l’avrà per caso percossa? Foscolo, quel palestrato... Per l’editoria italiana, forse, un boost imprevisto: e che aspettiamo a fare biografie di Armie Hammer, in America cancellato perché molestatore e forse anche cannibale? 

 

Del resto anche il #MeToo nella sua versione all’italiana è peculiare (fuori dal coro!), Italian Style: se per l’originale americano  “si butta via la chiave”, da noi i cineasti accusati son stati subito scagionati e riabilitati, e le accusatrici invece redarguite. Chiusa per sempre la passeggera americanata, a noi non la si fa.  


Insomma è il solito discorso, parliamo proprio di due realtà diverse, quella americana e quella italiana, piattaforme diverse e incompatibili, come una grande Netflix globale dei diritti che impatta sulla eterna Telenorba italiana, e piomba come una serie tv nuova di zecca, varie stagioni senza sottotitoli né riassunti, su  un popolo abituato al massimo allo spiegone di Anna Valle. E serviranno servizi di localization come per i modelli di auto che in una lingua significano una cosa e nell’altra un’altra, o anche qui sarà un problema generazionale, tra anziani che non tollerano alcuna novità estera neanche in cucina, e giovani invece che abbracciano il poké e l’avocado toast? Ma per il food si sa che è diverso, gli usi alimentari arrivano gradualmente, e si integrano, mentre quelli civici risultano più indigesti. Dunque se  nessuno si sognerebbe di vestire o mangiare come trent’anni fa, con grassi e cotture pesantissime, sui diritti vale il perenne revival e la dieta paleo.


E grande indignazione che non si possa più dire quella parola: ma come, se per i nostri nonni e bisnonni andava benissimo (dunque: “Ricchioni! Negri!”, sibilato ormai con la forza della disperazione, il venerdì sera, sul sofà cellofanato).  E certe pastasciutte dal brand coloniale generano nostalgie e “languishing” adulti. Come i libri su Mussolini astuti, che deprecano ma col lettering da Ventennio. Nostalgia canaglia. Due mondi che non si parlano. Così nell’Italia per cui “trans” significa da sempre povere disgraziate brasiliane che esercitano il meretricio agli angoli della strada, ecco dall’America tutto il dibattito in lingua originale senza sottotitoli con anche una serie di terminologie e acronimi complicati (terf, cis,  deadname) piombare sull’inattrezzato utente e commentatore italiano, generalmente maschio etero di mezza età alle prese con problemi tipo Quota 100.

 

Il solito clash tra arcaico e postmoderno (Black Lives Matter, diritti transgender, minoranze varie che in Italia non hanno mai avuto accesso a nessuna rappresentazione si scontrano col paese che strizza gli occhi per fare il cinese, e fa la blackface per fare il negro, e soffre perché non si può dire finocchio o ricchione, ma con tanta simpatia!). Ma intanto, in Rai, oltre alle note vicende, ci si chiede soprattutto come portare avanti programmi di massimo successo come “Tale e quale”, dove vecchie glorie in declino imitano star internazionali, e adesso, senza pitturazioni, chi mai potrà fare Prince o Lionel Richie? E’ chiaro che urgono agenzie di talenti di colore: investite su questo invece che ricapitalizzare Alitalia!

E se “il trans” improvvisamente non va più bene e bisogna scrivere “la trans”, il commentatore di mezza età non ha voglia, né tempo, di aggiornarsi.  “Si è sempre fatto così”. Ma quanto aiuterebbe una manualistica,  un dizionario, una app di quelle che dici la cosa e te la traducono, sulle nuove sensibilità di importazione; anche per “decisori” avveduti; così un politico anche vagamente contemporaneo come Calenda alla vigilia della legge Zan non trova di meglio che interpellare e coinvolgere femministe “terf” o “trans escludenti” (dateci il dizionario, presto), femmine arrabbiatissime con esseri dotati di pene che pure le ammirano tantissimo al punto di voler  essere come loro (però che idea, discuterne proprio con queste: come  discettare di vegetarianesimo con la Federcaccia).

 

E forse Pio e Amedeo coi loro nomi ed estetica da tenorini saranno nell’intimo più progressisti di Fedez, ma avranno studiato bene il target di riferimento e l’immenso bacino dell’Italia vecchiotta e reazionaria, terrorizzata che adesso col Draghi e i Pnrr tocchi improvvisamente diventare un paese un po’ moderno, e mettere da parte l’Italia dei Fausti Leali; lui che – ricordate? – diceva “negro” proprio come insegnano Pio/Amedeo, col sorriso  e senza malizia (e veniva subito punito da una tv generalmente più avanti del paese). 


L’Italia a due velocità, e non c’è Pnrr che tenga: non si parlano. Quella catodica di Pio e Amedeo ha sentito che  nell’ateneo molto progressista dell’estremo Connecticut qualche Shakespeare è stato abolito per studiare un poeta afrodiscendente almeno albino: e dunque teme seriamente che pure nella sua Pescara o Brescia avvenga lo stesso. La cancel culture! Mentre lì generalmente il rettore bianco ed eterosessuale figlio e nipote di rettore bianco ed eterosessuale sarà soprattutto seccato che con questo clima infame di politicamente corretto la palpata alla dottoranda non verrà più accolta per quello che è, una sana goliardata (e fatevela una risata!). 

Tranquilli! Qui nun se cancella niente. E le case editrici orgogliose e avide: noi Philip Roth lo pubblichiamo! E te ce credo. Urgono biografie sporcaccione. Dateci la molestia. Intanto nel paese tutto rimane com’è: il trans al posto della trans, e il coming out confuso con l’outing anche dalle menti più sofisticate; e se negli Stati Uniti basterà un articolo sbagliato per finire licenziati dal prestigioso quotidiano, in Italia sui giornali prestigiosissimi si discute per giorni animatamente sulla dottrina Mitterrand senza che il nome dell’ex presidente francese sia mai scritto con grafia corretta (anche dopo giorni, rimane con una erre sola, online. Non si cancella proprio mai nulla). Ma non è razzismo: la battaglia per vedere scritto giusto “sauté di cozze” sul menu del ristorante va avanti da anni, ed è chiaramente più impervia di quella per la legge Zan. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).