Un’immagine da “Chiamami col tuo nome”: il film di Luca Guadagnino, quattro candidature agli Academy Award 2018, ha vinto l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale, firmata da James Ivory

Filosofia d'erba

Massimo Adinolfi

Lo sfacelo della modernità e una vita che guarda più a un prato che al cielo. Leggere il nuovo Agamben guardando Guadagnino

Da qualche parte nel nord Italia. La campagna lombarda, le biciclette e l’acqua, i frutti maturi e un pianoforte, e i colori di un’estate che si poggia appena sulle cose: se non avessi visto Chiamami col tuo nome, il film di Luca Guadagnino premiato con l’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale di James Ivory (ma davvero magistrale è la fotografia del thailandese Sayombhu Mukdeeprom), se non l’avessi visto a ridosso della lettura dell’Autoritratto nello studio di Giorgio Agamben (Nottetempo 2017, pp. 167), non mi sarei accorto di quanta luce vi sia nelle fotografie attraverso le quali Agamben mostra gli incontri di una vita: il germanico Martin Heidegger in Provenza, tra giocatori di bocce; Jean-Luc Nancy sorridente nella campagna senese, in costume da bagno; José Bergamín a Siviglia, le mani che coprono il viso, seduto su una sedia di vimini.

 

Agamben è tra i filosofi italiani più letti e apprezzati nel mondo. Si capisce che questo prezioso album di immagini, parole e ricordi ingolosisca il lettore: ci sono i luoghi, gli oggetti, le persone, le passioni di una vita. Ci sono i seminari con Heidegger, frequentati in gioventù, e le cartoline di questi all’autore; c’è la foto con Pier Paolo Pasolini sul set de Il Vangelo secondo Matteo; ci sono copertine e illustrazioni di libri che lo hanno folgorato: Friedrich Hölderlin, Simone Weil, Tommaso Landolfi.

 

Un album di immagini, parole e ricordi. In “Autoritratto nello studio” ci sono i luoghi, gli oggetti, le persone, le passioni di una vita

Ancora: ci sono casali e quadri, volti e dipinti, poesie e ritratti. E, infine, c’è l’erba in pieno giorno dell’ultima foto, ciò solo in cui Agamben confessa di aver riposto “le mie speranze e la mia fede […]: non nel cielo – nell’erba”. Sono le parole conclusive del libro: “L’erba, l’erba è Dio. Nell’erba – in Dio – sono tutti coloro che ho amato. Per l’erba e nell’erba e come l’erba ho vissuto e vivrò”.

 

Visto che è la vita di un filosofo, che vuole essere “epigono nel senso letterale della parola, un essere che si genera solo a partire da altri e non rinnega mai questa dipendenza”, viene in mente Gilles Deleuze, che in Mille piani pensa l’erba in opposizione all’albero. L’albero è immagine della metafisica dell’occidente, sono le radici ben piantate nel suolo e uno sviluppo tutto verticale. L’erba è l’opposto: corre orizzontalmente sul terreno, senza struttura, senza l’ambizione di toccare il cielo. Tanto l’albero è trascendente, tanto l’erba è pura immanenza. Nelle conversazioni con Claire Parnet, Deleuze si spiegava così: “Quel che conta è il divenire-presente: la geografia e non la storia, la metà e non l’inizio e la fine, l’erba che sta nel mezzo e che cresce nel mezzo, e non gli alberi”.

 

Ma di erba ce n’è anche nella pellicola di Guadagnino. E tanta. Ed è in mezzo all’erba che si baciano i due protagonisti maschili del film, Elio e Oliver: in una estate che, come in ogni canzonetta che si rispetti, non dovrebbe mai avere né principio né fine.

 

E anche nel film c’è la geografia e non la storia. O, per dir meglio: la storia c’è, ma solo come paesaggio, scenario, fondale. Ammirato dalla distanza dalla quale amano osservare il nostro paese gli stranieri che da noi trascorrono soltanto i mesi estivi. Una sola volta si fa più vicina: per via di una coppia di amici italiani che, invitati a pranzo, proprio non riescono a non far chiasso e a infastidire i padroni di casa, litigando su Craxi e il pentapartito (siamo nel 1983, il segretario del Partito socialista ha appena ottenuto la guida del governo). C’è perfino un Beppe Grillo d’annata che, nei panni del comico televisivo, compie beffardi esercizi geometrici dal “centro della circonferenza di Bettino Craxi”. Ma quella è la pagliacciata della politica. Così, almeno, deve pensarla Guadagnino: l’Italia in cui vivono i coniugi Perlman, insieme al figlio Elio, è invece quella dei poeti, delle statue antiche che affiorano dal lago Maggiore, del buon cibo, delle serate al pianoforte e delle passeggiate in bicicletta. Un incanto sospeso. La modernità – la motorizzazione, i palazzi, le fabbriche, l’inquinamento, il rumore: tutto questo rimane fuori dalla narrazione. Si vede qualche macchina, una radiolina a transistor, un frigorifero: poco altro. A non dire del treno (un accelerato?) che, alla fine del film, porterà per sempre Oliver lontano dal suo amico Elio: l’alta velocità (benedetta alta velocità!) doveva essere semplicemente impensabile, visti i convogli che erano in circolazione.

 

L’uomo si fa uomo rimuovendo l’animale; la decisione politica si costituisce nell’orizzonte della negazione della vita

Ora, è da una distanza analoga che anche Agamben guarda il nostro paese, “lo sfacelo della società italiana”. Ma più in generale è l’idea stessa che la storia possa dispiegarsi in una costruzione progressiva che viene revocata in dubbio in tutti i suoi libri. E siccome la vicenda moderna è inseparabile dall’idea che la storia abbia a che fare con il progresso, è tutta la modernità che viene posta nelle pagine di Agamben sotto il segno dello sfacelo. La grande bellezza delle sue raffinate ricerche genealogiche sta nella sorpresa che ogni volta procurano i reperti che riemergono da tempi molto lontani: teologi medievali, antichi padri della chiesa, pensatori arcaici, vecchie storielle ebraiche, sentenze di giureconsulti romani. Quello che compongono, è il luogo di un’origine intemporale e perciò sempre co-attuale, che la storia non può mai riuscire a cambiare, o anche semplicemente provare a far crescere dentro i percorsi della civiltà.

 

La storia, s’intende, come la conosciamo noi: con gli stati e le battaglie, le conquiste del diritto e quelle della scienza, il capitalismo e la democrazia. Nella costellazione di Agamben, invece, il diritto è posto unicamente sotto il segno della violenza, la scienza evapora in una nuvola probabilistica che non morde più il reale, l’economia di mercato è una religione che ha ormai asservito al suo dominio tutti gli aspetti della vita sociale, e il campo di concentramento è eletto a paradigma eccezionale da cui la politica cosiddetta democratica, ve ne siate accorti o no, non ha saputo ancora venir fuori.

 

Né può mai riuscirvi, presa com’è dentro il dispositivo descritto dal filosofo nei volumi che compongono il progetto ventennale di Homo sacer, l’opera forse più nota di Agamben (l’ultimo della serie è apparso di recente: L’uso dei corpi, Neri Pozza 2014, pp. 366). All’origine c’è il potere di vita o di morte del sovrano. E non c’è altro: c’è una vita che è nuda di fronte al potere, e un potere che è sovrano proprio perché si esercita sulla nuda vita (ma sarebbe meglio dire: sulla vita denudata). Tutto quello che storia, diritto, cultura hanno provato a dispiegare tra quei due apici assoluti non ne cancella l’arcano originario. La genesi del potere rimane consustanziale e decisiva per l’intera vicenda politica occidentale.

 

E’ l’idea stessa che la storia possa dispiegarsi in una costruzione progressiva che viene revocata in dubbio in tutti i suoi libri

Di qui parte la vivace polemica che Biagio De Giovanni conduce nel suo ultimo libro, Kelsen e Schmitt. Oltre il Novecento (Editoriale Scientifica 2018, 307 pp.). A esserne investito è l’“Italian Thought”, quel pensiero italiano che negli ultimi anni ha avuto grande circolazione fuori dai confini patri, grazie appunto ad Agamben e a Roberto Esposito (pure Esposito ha un libro assai robusto, appena uscito per Einaudi: Politica e negazione. Bisogna che ne parli un’altra volta).

 

De Giovanni ha provenienze vichiane ed hegelo-marxiane: tutto un altro vocabolario. Perciò, dopo aver duellato a proposito dell’interpretazione “archeologica” del celebre frammento di Pindaro sul Nomos basileus, in cui si disvelerebbe secondo Agamben il rapporto costitutivo e inoltrepassabile fra diritto e violenza, sbotta: “Posso capire che stare su un crinale estremo ecciti il pensiero, ne faccia avvertire il protagonismo, lo collochi su un piedistallo eroico, e so bene che la radicalità del punto di vista possa spalancare scenari che appaiono assorbiti e incompresi dalla normalità […]. Il fatto è che se, però, non si stabilisce una relazione giusta tra gli ordinamenti della vita e i loro confini critici, se l’emergenza diventa talmente invasiva da oscurare la vista che si apre sul mondo, allora il rischio ermeneutico è enorme”.

 

Una “relazione giusta” è una relazione che agli “ordinamenti della vita” mantiene un valore, quello di un’opera di civilizzazione della forza a cui politica e diritto concorrono. Opera che certo non è al riparo dai vichiani ritorni della barbarie, come la tragica vicenda del Novecento dimostra, ma il cui significato si dispiega proprio nella capacità di costruire uno spazio lontano dai “confini critici”, cioè dagli estremi della violenza e della sopraffazione nel cui gorgo è sempre possibile precipitare. Una costruzione precaria, instabile: certo. E tuttavia una costruzione.

 

Torniamo al film. Oliver è lo studente che i Perlman hanno deciso di ospitare. Il figlio Elio cede la sua camera (il suo studio, i suoi libri), per un’altra stanza che ha tuttavia con la prima il bagno in comune. Le volte che uno va in bagno, l’altro lo sente orinare. Relazioni e turbamenti in cui traffica il desiderio. Siccome però ho visto il film in prossimità del libro, ho già pronta la migliore parola di commento: “La vita vegetativa resta per me indiscernibile da quella di relazione e orinare del tutto omogeneo a pensare”.

 

Ancora un caso di pensieri epigoni: prima di Agamben, già Hegel si era soffermato, nella Fenomenologia dello Spirito, su questa scelta singolare della natura, di congiungere l’eccelso e l’infimo, “l’organo della procreazione, e quello del pisciare”. La cosa non è sfuggita nemmeno ad Andy Warhol, i cui piss painting imitavano perfettamente le sublimità spirituali dell’espressionismo astratto americano: tanto Pollock sgocciola i suoi tormenti esistenziali sulla tela, tanto io ci piscio sopra, era il gesto parodico di Warhol. Con pregevolissimi effetti astratti, peraltro.

 

Un conto è però l’omogeneità di Agamben, tutt’altro il superamento dialettico hegeliano. Nella sua Fenomenologia – che, non dimentichiamolo, è pur sempre una storia: storia di come la coscienza naturale giunge al sapere vero, e così a se stessa – si volta pagina, e ben lungi dal rimanere in quella potente indistinzione, ci si ritrova subito nel regno adulto dell’eticità. L’infinita identità della generazione e della minzione è bella che superata: è, anzi, il negativo che deve esser tolto.

 

Prima di Agamben, già Hegel si era soffermato su questa scelta singolare della natura di congiungere l’eccelso e l’infimo

In Agamben invece no: si tratta, al contrario, di riattivare proprio quella zona di indiscernibilità fra natura e spirito, quel punto molle, infantile, fra vita vegetativa e vita del logos che l’articolazione della macchina metafisica e antropogenica dell’occidente ha obliato, seppellendola sotto l’immane costruzione del proprio edificio logico, linguistico, politico.

 

Siamo, a ben vedere, ancora dentro le sequenze del film di Guadagnino: pellicola vegetale quant’altre mai, in cui non a caso di animali non se ne vede nemmeno uno. Eppure siamo in piena campagna, in mezzo al verde, circondati da tanta, rigogliosa vegetazione. Ma niente: nessuna deiezione equina, nessun raglio d’asino, nessuna prosaica gallina o sgraziata mucca. Salvo un enorme pesce quasi parlante fra le mani di un anziano pescatore. Ma è un’apparizione miracolosa. Ed è puro Agamben: nella condizione edenica, spiegava infatti il filosofo ne L’aperto. L’uomo e l’animale, in quell’ultimo giorno nella cui luce si tratta però di vivere fin d’ora, secondo il ritmo del “già” e del “non ancora” che scandisce il tempo messianico, “i rapporti fra gli animali e gli uomini si comporranno in una nuova forma e l’uomo stesso si riconcilierà con la sua natura animale”.

 

E’ il motivo critico di tutto il pensiero del filosofo italiano: l’uomo si fa uomo rimuovendo l’animale (e all’età adulta si giunge dimenticando l’infanzia); il linguaggio si costruisce sopra la negazione della voce (e in tanto si dà significato, in quanto il puro suono sprofonda nell’insignificanza); la decisione politica si costituisce nell’orizzonte della negazione della vita; infine l’essere, in tutta la tradizione del pensiero filosofico, è quel che è solo come negazione del nulla.

 

Disattivare tutte queste negazioni, eliminare definitivamente il mitologema sacrificale è per Agamben il compito della filosofia. E siccome tutta l’opera dell’uomo ne è impregnato, vorrà dire che la gloria della vita umana riconciliata sarà l’inoperosità. La poesia ne è l’emblema. E ciò che la poesia compie in relazione al dire, politica e filosofia lo compiono (o compiranno) in relazione all’agire.

 

C’è però una vistosa inconseguenza. Che anche questo compiersi prende valore grazie alla luce negativa che getta su ciò che nega: altrimenti come si fa a definire uno sfacelo la società italiana, o puro orrore il dominio capitalistico della vita? Si può non accettare di venir risucchiati nella spirale negativa dell’azione (e della produzione), ma allora non resta che ritirarsi aristocraticamente nella campagna cremasca. O nel proprio studio, immagine di una potenza che non si lascia negare/superare nell’attualità dell’opera. Così però la cosa funziona solo come raffinata scelta estetica, molto meno come prospettiva politica.

 

Può funzionare dunque in un film (peraltro pregevole), molto meno per “fare comunità”. Del resto, Agamben sa – lo sa da un pezzo, da quando nel 2001 scrisse la postilla a “La comunità che viene” – che è perduta la possibilità di scuotere l’esistenza storica del popolo italiano. Solo che lì, nella postilla, l’idea di un compito storico non scompariva del tutto, ma chiedeva ancora di essere pensato (o meglio, “ripensato da cima a fondo”) con indispensabile radicalità. Ma qui – e intendo dire: nel punto in cui ci si dispone a rileggere i suoi libri, avendo negli occhi l’estate di Luca Guadagnino – non si possono che prendere alla lettera le sue parole: “Non un’opera, ma una specie particolare di vacanza sabbatica”. Sarà particolare, ma sembra trascorsa proprio nella villa dei coniugi Perlman.

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