Viaggio nella più controversa storia intellettuale del Novecento

Federico di Vita

Il libro di Michael Pollan sulla psichedelia, un'idea sfruttata dalla Cia, dai pacifisti americani e non solo


In inglese il titolo del nuovo libro di Pollan porta con sé un’ambiguità impossibile da conservare, ed è così che la traduzione letterale si vede impoverita dell’euristico “come cambiare idea”. Perché dopo tanti libri che si occupano di cibo Michael Pollan – il più influente saggista in ambito gastronomico – ha deciso di occuparsi di psichedelia? (Come cambiare la tua mente, Adelphi, 480 pp., 28 euro) È lui ad aver cambiato idea? Ci invita a fare lo stesso? Non necessariamente. Tuttavia il volume, documentatissimo, ci mette in condizione di valutare la questione nel suo complesso. Come cambiare la tua mente è infatti prima di tutto la storia più articolata e meglio leggibile – è grande il talento divulgativo di Pollan – di una delle più controverse avventure intellettuali del Novecento.

 

Passa in rassegna tutto: dalla sorpresa della scoperta di una molecola dagli effetti cangianti a opera del chimico svizzero Albert Hofmann, ai discussi tentativi di impiego farmacologico studiati negli Stati Uniti negli anni ’50 e ’60, passando per le avventure picaresche di Al Hubbard, un “oscuro ex contrabbandiere e trafficante di armi, spia, inventore, capitano di imbarcazioni, ex carcerato e mistico cattolico”, che mentre con una mano forniva sostanze di contrabbando ai centri di ricerca, con l’altra prendeva nota dei progressi degli studi per conto della Cia, nella classica veste dell’agente infiltrato. Fioccano i dettagli da spy story in questo libro, come la vicenda del Mk-Ultra, il segretissimo programma di ricerca della Cia che dal 1953 al 1964 ha cercato di capire se gli psicolitici potessero servire come siero della verità negli interrogatori, come arma biologica – immessi negli acquedotti nemici –, o come strumento politico (per indurre qualcuno a comportamenti ingiustificabili). Pare che non potessero, il progetto venne archiviato senza risultati e poco dopo lo stesso destino – l’archiviazione – toccò a tutte le sostanze, messe fuori legge nel 1968.

 

Mentre la Cia provava a capire come utilizzare le molecole per soddisfare i propri fini, queste si legavano a doppio filo con i movimenti pacifisti, secondo alcuni spingendo più di qualche giovane a disertare la leva: essendo quelli gli anni della guerra del Vietnam, ciò dovette sembrare inaccettabile agli occhi del governo statunitense. Ma sorprendentemente a favorire più di ogni altro la messa al bando era stato un altro personaggio da romanzo, Timothy Leary, professore di Harvard e a sua volta alfiere della psichedelia, che col suo istrionismo, tra test falsati e droghe spacciate nei corsi universitari, per molti di fatto azionò la mannaia di un divieto draconiano.

 

Ma come in ogni piega di questa storia i dubbi non mancavano: già allora infatti tali sostanze erano ritenute un farmaco promettente per la cura delle dipendenze. Prevalse però la ragion di stato. In poco tempo se ne dimenticarono quasi tutti fino a quando, una decina di anni fa, un pugno di scienziati tra Harvard, Yale e il King’s College cominciò di nuovo a interrogarsi sui potenziali usi terapeutici della psilocibina, principio attivo dei funghi psichedelici. E con sorpresa, oltre ai vecchi studi, saltarono fuori possibili impieghi per la cura della depressione, dell’ansia nei malati terminali e, ancora, delle dipendenze. La ricerca è in corso, ed è bene mantenere un atteggiamento prudente fino a che tutti i dubbi non saranno sciolti (se dobbiamo cambiare idea, pare dirci Pollan, facciamolo risultati alla mano), ma negare le possibilità che sembrano emergere dagli odierni trial ci metterebbe nella posizione del più retrivo anti-scientista: panni che nessuno di noi vestirebbe comodamente.

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