Ebrei a Shanghai

Alessandro Litta Modignani

Elisa Giunipero (a cura di)
O barra O Edizioni, 90 pagine, 14 euro

Vi è un capitolo semisconosciuto, nella storia della Shoah: la vicenda drammatica, fortunatamente a lieto fine, degli ebrei che trovarono rifugio a Shanghai e si salvarono dalle persecuzioni della Germania nazista. Questo piccolo volume collettaneo ne ricostruisce la storia, con particolari interessanti e testimonianze toccanti.

 

Dopo la guerra persa con gli inglesi e la conseguente pace di Nanchino (1842) la Cina è costretta ad aprire i suoi porti al commercio internazionale. Uno di questi è Shanghai, che nel giro di un secolo decuplica la sua popolazione, da 500 mila a oltre cinque milioni di abitanti. Lo sviluppo tumultuoso della città le procura, nei primi decenni del Novecento, il soprannome di “Parigi d’oriente”; altri la paragonano a New York per gli alti edifici e la frenetica attività portuale. Vaste aree della città vengono assegnate alle potenze straniere (le cosiddette “concessioni”) e qui si stabiliscono molti cittadini inglesi, americani e francesi – il più grande agglomerato straniero di tutta l’Asia, all’interno del quale si sviluppa anche una fiorente comunità ebraica.

 

Il bombardamento e l’occupazione giapponese di Shanghai (1937) inizialmente non sembra toccare le comunità straniere, che anzi vedono molti architetti e ingegneri – anche ebrei – impegnati nella ricostruzione dei quartieri distrutti. Ma l’anno seguente, l’Anschluss e la Notte dei Cristalli provocano l’arrivo improvviso di circa ventimila ebrei, soprattutto austriaci e tedeschi, ma anche polacchi e russi. Nel giro di pochissimo l’intera zona internazionale si trasforma. Nascono ristoranti, locali, teatri, fiorisce la vita artistica, culturale e musicale. Nelle strade intorno a via Zhoushan si forma un “microclima” etnico, che trasforma la zona in una “piccola Vienna” ebraica.

 

L’attacco di Pearl Harbor e l’alleanza con la Germania nazista inducono le autorità giapponesi a rinchiudere gli “apolidi” di Shanghai – cioè gli ebrei tedeschi e austriaci, privati della cittadinanza – nel quartiere-ghetto di Hongkou (1942). Ma a Hitler non basta. Una delegazione di Berlino, guidata dal “macellaio di Varsavia”, Josef Meisinger, chiede all’alleato di imbarcare tutti gli ebrei su navi malandate e di affondarle in alto mare.

 

Il governatore militare nipponico, dopo un incontro con gli anziani capi della comunità – intorno al quale gli aneddoti si sprecano – respinge la richiesta.

La vita nel ghetto di Hongkou è durissima: si soffrono la fame, le malattie, il sovraffollamento. Ma gli ebrei di Shanghai scampano alla “soluzione finale”.

 

Il saggio, pur nella sua brevità, affronta due questioni storiografiche cruciali. La prima: perché le autorità e la popolazione di Shanghai, nelle difficili condizioni del 1938, hanno accettato di buon grado l’ingresso improvviso di circa ventimila immigrati ebrei? Perché costoro godevano di ottima reputazione, è la risposta: gli ebrei erano considerati intelligenti, benestanti e grandi lavoratori, poiché da quelle parti il virus antisemita non era presente. La seconda: per quale motivo i giapponesi si rifiutarono di assecondare il disegno genocidario del loro alleato? Innanzitutto, per il fatto che l’ideologia nazista, fondata sulla supremazia della “razza ariana”, poteva esercitare scarso o nessun fascino sulla mentalità asiatica. Molto più concretamente, i giapponesi avevano pensato a un “Piano Fogu” (dal nome di un pesce prelibato ma velenoso) consistente nell’imprigionare 30.000 ebrei e poi chiedere un riscatto di cento milioni di dollari alla Comunità ebraica mondiale. Il piano non fui mai attuato.

 

EBREI A SHANGHAI
Elisa Giunipero (a cura di)
O barra O Edizioni, 90 pagine, 14 euro

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