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lettere al direttore

Tim nazionalizzata? Non proprio, nonostante le promesse meloniane

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - La questione delle governance della rete è sempre stato l’ostacolo alla vendita di una sua quota: Tim la perseguiva per alleggerire la sua situazione finanziaria, ma poneva la condizione di mantenere il controllo sulle scelte strategiche. Di questo stava discutendo il 13 agosto 2020, quando il governo Conte II entra a piedi giunti in consiglio di amministrazione di Tim che stava deliberando sull’offerta di Kkr per una quota della rete: il punto  critico era la governance, che Tim voleva assolutamente mantenere. Nel comunicato del Mef dell’11 agosto scorso viene precisato che il Tesoro sarà accanto a Kkr investendo fino al 20 per cento di Netco, ma che, a garantire gli interessi nazionali su un asset strategico, saranno i poteri diretti attribuiti a Via XX Settembre: “I termini dell’offerta dal punto di vista dei rapporti tra le parti prevedono un ruolo del governo nella definizione delle scelte che sarà DECISIVO per la definizione delle scelte strategiche”. A questo 20 per cento potrebbe aggiungersi un 10-15 per cento di F2i che dall’estate ne discute con Kkr. Se qualcuno avesse qualche dubbio che questo significhi la nazionalizzazione di fatto di Tim, si rilegga le parole di Giorgia Meloni, che fin dal 22 dicembre 2022 aveva precisato: “Questo governo si dà l’obbiettivo duplice di avere il controllo della rete, per una questione strategica, e di lavorare per mantenere i livelli occupazionali”. Tim ha più del doppio dei dipendenti Vodafone. Che la maggioranza delle azioni della rete non sia passata al governo è formalmente vero: che Tim abbia ceduto al governo il controllo sulla strategia della società, sarà la realtà di un’azienda di  fatto nazionalizzata: nella catena di negozi potrà ancora definire piani tariffari e prezzo di vendita degli accessori. “Non male in fondo”, scrive il direttore: ma raccontiamola giusta fino in fondo.

Franco Debenedetti 

Spunto magnifico, caro Franco, come sempre. Invito però a rileggere senza polemica e con affetto quanto promesso da Meloni & co. in campagna elettorale. Punto diciotto del programma: “Potenziamento e sviluppo delle infrastrutture digitali ed estensione della banda ultralarga in tutta Italia. Tutela delle infrastrutture strategiche nazionali: garantire la proprietà pubblica delle reti sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni. Clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, quali autostrade e aeroporti. Tutela delle aziende strategiche attraverso un corretto ricorso al golden power”. Un anno fa, in effetti, Alessio Butti, responsabile innovazione di Fratelli d’Italia, disse esplicitamente che il progetto di Fratelli d’Italia era far controllare  la rete unica da Cdp, dopo aver concentrato tutta la rete in Tim. In pratica: far comprare Open Fiber a Tim (azienda quotata, con un pacchetto del 90 per cento in mano ai privati) e poi far comprare Tim a Cdp. Il programma di Fratelli d’Italia sulle telecomunicazioni, come scrivemmo sul Foglio all’epoca, era dunque ispirato più che al modello “wholesale only” (che vuol dire tra l’altro l’opposto di quello che lei sostiene: divisione tra chi si occupa di rete e chi si occupa dei servizi) al modello Maduro (nazionalizzare tutto). Nei fatti oggi le cose un po’ diversamente, forse, sono andate. Ma il suo appunto è prezioso. Grazie. 


 

Al direttore - Da sei anni trascorro le vacanze estive in una nota  località della Val Pusteria. Lì ho conosciuto italiani che credono di sapere dell’Alto Adige quanto basta, mentre ne sanno poco e, forse, ne hanno sempre capito poco. Ci passano quando devono andare a Innsbruck o in Germania, ci vengono d’inverno per sciare o d’estate per una passeggiata in montagna, in un ambiente che sembra fatto apposta per il riposo del corpo e l’igiene della mente. Ne ammirano l’ordine, la pulizia, l’efficienza dei servizi sanitari e alberghieri; e a molti di loro sembra impossibile che paesaggi così tranquilli siano stati teatro di conflitti drammatici, i quali hanno svelato all’Europa l’esistenza di una questione altoatesina. La sua data di nascita è il 10 settembre 1919, quando le potenze vincitrici della Prima guerra mondiale firmano a Saint-Germaine-en-Laye il trattato che stabilisce la ripartizione del dissolto impero austro-ungarico, tra cui l’annessione di Trento e Bolzano al nostro paese. Appena tre anni dopo inizia il “ventennio della follia”. Il 2 ottobre 1922 arrivano a Bolzano alcuni camion di “camicie nere” che incominciano a insegnare l’idioma di Dante agli “alloglotti” – come venivano chiamati dai fascisti – con la didattica dei manganelli e dell’olio di ricino. E’ il primo capitolo di una italianizzazione coatta costellata di dolorose divisioni. Quando nel maggio 1945 entra in scena la Südtiroler Volkspartei (Svp), il neopartito rivendica il diritto all’autodeterminazione dei tirolesi e si schiera con l’Austria nella richiesta di un referendum popolare per poterlo esercitare. Ormai c’erano gli italiani, in Sudtirolo/Alto Adige; e c’era quel personaggio invisibile, l’odio, capace di riempire le valli e di scalare le Dolomiti. Gli anni Cinquanta furono quelli dell’offensiva autonomista della Svp di Silvius Magnago, all’insegna dello slogan “Los von Trient” (Via da Trento). Furono gli anni della “stagione delle bombe”, seguita a metà degli anni Sessanta dalla “stagione dei mitra” in cui persero la vita guardie di finanza, carabinieri, militari. Dopo molti sforzi durati un decennio, il 20 gennaio 1972 entra in vigore il nuovo Statuto di autonomia. Ma solo nel 1976 vengono emanate le norme attuative su due temi cruciali: la proporzionale etnica nel pubblico impiego e il bilinguismo. Quando furono applicate in modo rigoroso le due norme-chiave dello Statuto di autonomia, i nostri connazionali si sentirono franare il terreno sotto i piedi. I sudtirolesi avevano il commercio, l’agricoltura e il turismo. Gli italiani avevano il pubblico impiego prima che la proporzionale etnica glielo togliesse, e il lavoro nelle fabbriche prima che le fabbriche cominciassero a chiudere a causa della crisi economica. Credevano che quei posti di lavoro non fossero un privilegio, ma fossero dovuti. Né si erano mai chiesti perché i sudtirolesi parlassero l’italiano mentre nessuno di loro, o quasi, parlava il tedesco. Solo nel 1992 si chiuderà il trentennale contenzioso diplomatico con l’Austria, che Bruno Kreisky aveva addirittura portato sui banchi dell’Onu. Con una “dichiarazione liberatoria”, il governo di Vienna accettava le misure approvate dal dicastero Andreotti per la tutela delle genti altoatesine. Dopo aver conquistato l’autonomia, la provincia di Bolzano ha avuto tre presidenti. Il primo, Silvius Magnago (1914-2010), ne è stato il padre. La sua storia personale coincide con la storia del Sudtirolo. Come tanti altri giovani della sua generazione, nel 1939 scelse la Germania di Hitler. Ferito sul fronte russo, perse una gamba. Nel dopoguerra fu un tenace assertore del distacco da Trento. Era letteralmente ossessionato dall’idea che cinquantasei milioni di italiani potessero assimilare e assorbire cinquecentomila altoatesini. Il secondo presidente, Luis Durnwalder (nato nel 1941), apparteneva alla generazione più aperta alle ragioni del dialogo. Il terzo, Arno Kompatscher (nato nel 1971), si è insediato nel gennaio del 2014. Quando il Parlamento di Vienna approvò nel 2019 la concessione della cittadinanza austriaca agli altoatesini di lingua tedesca, si affrettò a precisare che quel voto non implicava progetti di secessione, ma era solo l’espressione simbolica di una “rapporto sentimentale” con quella che una volta era la madrepatria. Sarà vero? Il futuro, dicevano gli antichi, è nel grembo di Giove. Solo lui può conoscerlo.

Michele Magno

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