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lettere al direttore

Su Tim e Ita, Meloni ha fatto ciò che a Draghi non è riuscito

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - C’era di che essere perplessi al funerale di Michela Murgia. Perplessi per l’ennesima pessima prova che la Chiesa, peraltro presente in maniera significativa (e già questo la dice lunga), ha dato di sé. Ad ascoltare l’omelia quanto i messaggi di alti prelati un marziano che si fosse trovato nella chiesa degli artisti per caso avrebbe avuto netta la sensazione di essere al cospetto se non di una santa quantomeno di una persona di sicura fede. Fede, ha sottolineato il celebrante, che quanto a capacità di adattare i messaggi a seconda del contesto ha un indubbio talento, che la scrittrice non ha mai avuto timore di testimoniare e mostrare, in particolare per come ha affrontato la malattia e perché si preoccupava più per gli altri che per sé stessa. Già. Peccato solo che tale donna di fede che “ha fatto tante battaglie” (quali, esattamente?) sia la stessa che ha anche fatto della sua vita, compresa l’ormai celebre intervista del 6 maggio scorso al CorSera, un manifesto vivente, il manifesto di un catechismo riveduto e (politicamente) corretto. Un catechismo cioè femminista, favorevole all’aborto, all’eutanasia, all’utero in affitto, alla riscrittura  – anche formale con l’uso della schwa – della grammatica antropologica, a un concetto di famiglia liquido e indefinito in cui “le relazioni contano più dei ruoli”; e dove il matrimonio, se proprio tocca farlo (nella fattispecie solo civilmente, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista della morale cattolica) serve solo per tutelare diritti, essendo manco a dirlo indifferente che si sposi con un uomo o una donna. Non solo: ma catechismo che neanche vede di buon occhio i bambini se è vero, come ebbe a dire sempre al Corriere, che “i bambini rompono i coglioni” (sic), prediligendo perciò altre forme di maternità e di figliolanza siccome è pure “insensato dire che di madre ce n’è una sola, una condanna per la donna e anche per chi le è figlio”. Tutto questo però non conta. Non conta che Michela Murgia abbia voluto fare della sua vita, in ciò ben supportata dall’establishment, quello vero, un contro-catechismo politically correct, no. Forse perché, in fondo in fondo, le idee della Murgia non dispiacciono poi troppo a certi pastori?
Luca Del Pozzo


Al direttore - “Se è caro, dev’essere strategico”: era la battuta che circolava tra i top manager di una grande azienda per cui ho lavorato, quando non riuscivano a trovare una spiegazione per investimenti decisi dalla proprietà e di cui si stentava a trovare la razionalità. Si adatta a pennello alla decisione del governo di acquisire la maggioranza di controllo della rete Tim, con la differenza che qui è il governo stesso a invocare questa giustificazione ai 2 miliardi che si vogliono spendere per avere il controllo della rete. D’altronde è dal 1997, quando Tim fu privatizzata, che si parla della sua presunta strategicità. Presunta, perché se ci si riferisse ai contenuti dei programmi televisivi, agli scritti dei social, ai dati delle app, e ora alle decisioni dell’intelligenza artificiale, i pericoli vengono piuttosto da governi democraticamente eletti (vedasi l’esempio della Rai); mentre se il riferimento fosse a interruzioni della rete fisica provocate da malintenzionati, italiani o stranieri, strategici sarebbero i carabinieri. Strategica divenne poi la banda larga, per un confronto (improprio) con gli altri paesi europei: a provvedere a colmarlo sarebbe stata la costituenda Open Fiber. Largamente ne scrissi, della fantasiosa sinergia con la posa dei contatori elettrici, delle connessioni dichiarate quando in realtà il cavo terminava  appeso al più vicino palo della luce, dei bandi di gara per portare la fibra anche nelle zone bianche scritti in modo che Open Fiber li vincesse con certezza. Oggi è Maurizio Gasparri a parlare di sperpero di danaro pubblico, ad attirare l’attenzione della Corte dei conti, a denunciare che “a fine 2023 le unità immobiliari collaudate sono 2.841.663 contro le 6.411.150 che si sarebbero dovute connettere”. Perché questi altri 2 miliardi? Qual è l’obbiettivo pubblico di assumere il controllo della rete di Tim? E’ promuovere la banda larga? Quando sono anni che buttiamo via soldi. E’ giocare con gli investimenti strategici? Un po’ caro come gioco. E’ chiudere con una decisione simbolicamente molto rilevante quella che tutti (gli altri) ormai considerano l’infausta stagione delle privatizzazioni? Un prezzo carissimo per piantare una bandierina. Vivendi non è riuscita a ridurre i debiti finanziari ereditati dalla privatizzazione e ora ha dato a Kkr il diritto esclusivo per trattare l’acquisto del 100 per cento di Netco, la società che possiede il 100 per cento della rete primaria, della rete secondaria e dei cavi sottomarini di Sparkle , grazie a un’offerta non vincolante da 21 miliardi (10 di capitale e 11 di trasferimento debiti), elevabile fino a 23 nel caso di future nozze con Open Fiber (che fa capo al 60 per cento a Cdp, e al 40 per cento al fondo australiano Macquarie).  Il Tesoro ha prenotato una quota fino al 20 per cento  della Netco ma “i rapporti tra le parti prevedono un ruolo decisivo del governo nella definizione delle scelte strategiche”. Inoltre dall’inizio dell’estate c’è anche il fondo F2i seduto intorno al tavolo per valutare l’ingresso nella Netco con una quota fino al 10-15 per cento. All’esborso del Tesoro tra i 2 e i 2,6 miliardi si sommano quindi da 1 a 15 miliardi di danaro pubblico. Con il 35 per cento in mano italiana, l’offerta Kkr è al riparo anche dalle norme del golden power. Ancora: Open Fiber è passata da Enel a Cdp, Tim ha Cdp tra i suoi azionisti: perché partner di Kkr stavolta è il Tesoro e non la Cassa, con F2i come junior partner? Una questione strategica che mi è sfuggita? Il risultato netto è che Tim non solo perde la rete (alleggerendo la sua posizione finanziaria), ma perde anche la definizione delle scelte strategiche. Quel ruolo sarà  del Mef in una cordata dove non c’è un solo industriale ma solo banche, grandi intenditori di tlc, di cui si ricordano i disastri in Telco quando dovevano fare la guardia a Telefónica. Quella che era una delle poche grandi aziende italiane si riduce a una rete di vendita di abbonamenti e di accessori, con un multiplo dei dipendenti di Vodafone, che pure naviga in acque difficili. Il governo cosiddetto di destra può aggiungere un altro anello alla catena di aziende nazionalizzate. Con i contribuenti che devono tirar fuori da 2 a 3 miliardi. Indubbiamente una grande operazione strategica.
Franco Debenedetti 

Il risultato dell’operazione da lei descritta indica una dinamica simile a quella che lei descrive, con lo stato che avrà più peso di prima nella rete, che ora Tim non avrà più. Non esistono effettivamente in Europa casi simili a quello italiano, di società private che perdono la propria rete a favore di una cordata partecipata dallo stato. Eppure, una volta maturata l’operazione, occorre anche dire che la stessa operazione la voleva fare anche un governo non esattamente statalista, come quello Draghi, e occorre riconoscere che anche in questa partita, dopo quella di Ita, ceduta a Lufthansa, il governo Meloni è riuscito a fare quello che a Draghi non è riuscito. Far vendere la rete di Tim, per cederla a Kkr, senza nazionalizzare la rete. E cedere Ita a Lufthansa senza nazionalizzarla. Non male in fondo, no?

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