"Picnic at Hanging Rock", tra le serie tv presentate alla Berlinale

Il festival di Berlino ha fatto pace con le tv

Mariarosa Mancuso

Le piattaforme streaming che turbano il sonno dei rivali (vedi Cannes)

Capita che gli scrittori si divertano a fare i dispetti. Gogol scrisse la seconda parte delle “Anime morte” e in un febbrile delirio religioso la bruciò (la terza, prevista dallo schema dantesco, non la scrisse mai). Capita che i dispetti li facciano gli editori. Joan Lindsay, la scrittrice degli antipodi a cui dobbiamo “Picnic at Hanging Rock” aveva previsto una soluzione del mistero. Quando l’editore eliminò dal romanzo l’ultimo capitolo, diede ordine di pubblicarlo dopo la sua morte. Ebbe il cattivo gusto di andarsene nel 1984, quando ormai Peter Weir aveva girato il film, fissando la storia al punto in cui era. Tre studentesse scompaiono durante il picnic, a San Valentino del 1900, e di loro nessuno saprà più nulla. Di più: un finto articolo di giornale citato alla fine del libro sembrava suggerire una storia vera (serviva e serve per vendere qualche copia in più). “Picnic at Hanging Rock” – ora una miniserie in sei puntate prodotta dalla tv australiana – era nella sezione Berlinale Series, lo spazio festivaliero che dal 2015 propone serie televisive.

 

Berlino sembra aver fatto pace con la tv e con le piattaforme streaming che ancora turbano il sonno dei rivali. Il festival di Cannes, per esempio, accetta serie d’autore come “Top of the Lake-il mistero del lago” di Jane Campion o “Twin Peaks 3” di David Lynch. Ma dal prossimo anno rifiuterà film come “The Meyrowitz Stories” di Noah Baumbach, perché non sono distribuiti al cinema ma solo su Netflix. Perlopiù si tratta di produzioni europee – criterio meno punitivo per le serie che per il cinema, dal nord arrivano ottimi prodotti. Con qualche eccezione territoriale. Nel programma di quest’anno c’è la miniserie israeliana “Sleeping Bears” di Keren Margalit: un terapeuta muore in un incidente, gli appunti finiscono nelle mani di una paziente (promette, come permetteva “BeTipul” che noi conosciamo nel suo remake americano “In Treatment”). Dagli Stati Uniti arriva “The Looming Tower” (Amazon Prime Video, in Italia dal 9 marzo): “looming” sta per “incombente”, quel che stava per capitare era l’11 settembre. Siamo alla fine degli anni 90, Osama Bin Laden e al Qaeda si fanno più minacciosi, Fbi e Cia combinano pasticci e spianano la strada agli attentatori. Questa, almeno, la tesi sostenuta nel libro che ha ispirato la miniserie con Jeff Daniels e Tahar Rahimi, guest star Alec Baldwin. Lo ha scritto Laurence Wright, che in precedenza si era dedicato a Scientology (“La prigione della fede”, Adelphi). Frequenta gente fuori di testa oggi e frequentala domani, un pochino lo hanno contagiato.

 

Siccome la Berlinale è un festival con un mercato che funziona (anche se gli operatori erano piuttosto tiepidi, e i giornalisti pure, dopo un Sundance 2018 scarso di affari) alle serie presentate in anteprima si affiancano dal 19 al 21 febbraio i “Drama Series Days”. Nella prima edizione, anno 2015, fu mostrata agli addetti ai lavori la bella e costosa serie “Babylon Berlin” (2,4 milioni di euro a episodio). Era diretta da Tom Tykwer, quest’anno presidente della giuria che assegna l’Orso d’oro. Volevano un giudizio spassionato, non un finanziamento come gli otto progetti di serie scelti quest’anno per i pitch: una specie di speed date che fa incontrare showrunner e produttori (le idee davvero azzeccate si dicono in due minuti, se serve di più qualcosa non va). Sono stati scelti tra 120 richiedenti, per applicare alla televisione – o alle piattaforme streaming – le coproduzioni internazionali già collaudate per il cinema.

Di più su questi argomenti: