Dieter Kosslick (foto LaPresse)

La migliore notizia dalla Berlinale è il pensionamento del direttore

Mariarosa Mancuso

Giovedì si apre il festival, Herr Kosslick celebra il Sessantotto

Con un brivido sfogliamo il programma della Berlinale in cerca del compitino firmato dal direttore. Chissà se quest’anno verranno prima i teatri di guerra, o il dramma dei migranti, o i poveri della porta accanto. Che posto avranno le donne in generale, e le molestate in particolare? (capita, con i Festival che amano l’impegno sociale e politico più del cinema). Sorpresa, quest’anno la dichiarazione di intenti celebra i 50 anni dal Sessantotto, ovvero la grande partita Giovani contro Establishment. Non è ancora ben chiaro chi abbia trionfato. Se servisse un indizio, sappiate che Dieter Kosslick avrà 70 anni tra poco, dirige il festival berlinese dal 2002, bontà sua ha annunciato che se ne andrà a maggio dell’anno prossimo, quando (finalmente) scadrà il contratto. Per ora, sceglie film a propria immagine e somiglianza. E’ vero che si pesca quel che c’è in giro di pronto – a parte, s’intende, i registi che tengono il loro film in serbo per Cannes. E’ altrettanto vero che i gusti dei direttori contano. Esempio: Herr Kosslick ha un’insana passione per i film in costume, rappresentati quest’anno da “Damsel” di David & Nathan Zeller (con l’ex vampiro Robert Pattinson pioniere in un vecchio West tra omaggio e parodia) e “Black 47” di Lance Daly (con Hugo Weaving reduce di guerra, Afghanistan 1848: la stessa da cui torna malconcio il dottor Watson di Sherlock Holmes). Fuori concorso, si aggiunge “The Happy Prince”, vanity movie su Oscar Wilde diretto e recitato da Rupert Everett.

 

Altra insana passione, e altro genere cinematografico ad alto rischio – di kitsch, perlomeno: le biografie o i memoir di celebri personaggi. C’è Romy Schneider inseguita da un giornalista e un fotografo, in “3 Days in Quiberon” di Emily Atef (non si poteva trovare un titolo che facesse meno pacchetto vacanze?). C’è Astrid Lindgren, la mamma di Pippi Calzelunghe, in “Becoming Astrid” di Pernille Fischer Christensen. C’è il pianista e compositore Ryuichi Sakamoto, lo scrittore Sergej Dovlatov, il fumettista John Callahan che dopo una sbronza giovanile si svegliò tetraplegico su una sedia a rotelle.

 

Poteva mancare il terrorismo? S’avanzano in rappresentanza “7 giorni a Entebbe” di José Padilha e “Utoya-22 luglio” di Erik Poppe. Per ridarci un po’ di fiducia nel cinema, apre Wes Anderson con “The Island of Dog”. A lui si deve l’altra apertura di festival applaudita e non fischiata di questi anni: il capolavoro era “Grand Budapest Hotel” (non potete sapere quanto era brutto, l’anno scorso, “Django” di Etienne Comar: però per dibattere aveva i nazisti, gli zingari, l’artista perseguitato, la musica che scalda i cuori). Il gran lavoratore Steven Soderbergh – a dispetto del ritiro annunciato – porta in concorso “Unsane” (con la “u”). Lo ha girato in una settimana con lo smartphone, o almeno così dice. Racconta Claire Foy e uno stalker che la perseguita. Lei cambia città, e se lo ritrova tra i piedi (sappiate che la cura potrebbe essere peggiore del male). Intanto nelle sale italiane non è ancora uscito “Logan Lucky”, con Adam Driver e Channing Tatum, mentre la serie “Mosaic” con Sharon Stone è già su Sky Atlantic. Il gran noioso filippino Lav Diaz – Leone d’oro a Venezia per le quasi quattro ore di “The Woman Who Left”, nessuno più lo convincerà alla sintesi – arriva con l’ultima fatica (per lo spettatore, temiamo) intitolata “Season of the Devil”. Opera rock, sostiene il regista. Sue le parole delle canzoni atte a suggerire (non bastano evidentemente 234 minuti di immagini) le sofferenze patite dagli abitanti di un villaggio nella giungla sotto il dittatore Marcos. Riempita la casella “Arte Sublime”, la Berlinale può cominciare.

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