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La burocrazia malata

Cantieri abbandonati, progetti mai realizzati. Cosa vuol dire far funzionare l'amministrazione pubblica in Italia. Parla Sabino Cassese

Per completare il “giro d’orizzonte” sulle istituzioni, passiamo alla burocrazia. Quale è il giudizio corrente sulla burocrazia italiana? 

Comincio dall’inizio della storia repubblicana. Egidio Ortona, in “Anni di America. I. La ricostruzione 1944-1951”, Bologna il Mulino, 1984, pp. 5 e 358, segnalava l’“inadeguatezza della burocrazia” nell’immediato secondo Dopoguerra. Emilio Sereni, messo a capo di un ministero, quello dell’assistenza postbellica, di natura particolare, perché non nato come organismo burocratico, definì la relativa burocrazia “inesperta e incontrollata” (E. Sereni, “Diario (1946-1952)”, Roma, Carocci, 2015, p. 21). Vanoni trovò gli uffici delle finanze in “condizioni miserevoli”: “Pochissimi uffici avevano il telefono; molti non avevano macchine da scrivere né da calcolo e, quando vi erano, si scopriva che erano state date in prestito da qualche ditta locale o da qualche associazione di operatori economici” (secondo il resoconto di G. Stammati, “La finanza pubblica italiana raccontata da un testimone (1945-1975)”, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1990, p. 97). Fanfani, all’atto del trasferimento degli uffici della presidenza del Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi, nel 1961, scrisse “trovo conferma [di] quanto lenta e arrugginita sia la nostra amministrazione” (A. Fanfani, “Diari”, vol. IV 1960-1963, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, p. 226).

 

Mali antichi. 

Tanto antichi. Francesco de Sanctis, nel programma elettorale del 1865, lamentava: “E’ mancato il vigore dell’esecuzione”. E aggiungeva, con parole di straordinaria attualità, “perché le lotte politiche hanno tolto il tempo alle riforme amministrative; perché nessun ministero è durato tanto da compiere e attuare tutto il suo programma; perché le discussioni sono state interminabili, le interpellanze infinite; perché i ministeri uscenti da certi gruppi della Maggioranza ed insidiati da altri, non hanno avuto l’autorità e la forza di spezzare tutti gli ostacoli che alle riforme oppongono gl’interessi coalizzati, le abitudini inveterate, la resistenza passiva, la rilassatezza delle amministrazioni. Vede quello che avviene ne’ municipi. Le idee ci sono, le riforme si propongono; i progetti si è facili a farli; ma quando si tratta di eseguirli, quanti ostacoli! Quante passioni! Quanta resistenza nelle abitudini, ne’ pregiudizi, negli interessi! Ingrandite l’esempio, e comprenderete perché nella Camera alle belle intenzioni non ha sempre corrisposto l’esecuzione” (il discorso è ora riprodotto in F. De Sanctis, “L’Italia sarà quello che sarete voi. Discorsi e scritti politici (1848-1883)”, Sant’Angelo dei Lombardi, Delta edizioni, 2014, pp. 91-92). Nel 1918 Oscar Sinigaglia va al ministero delle Armi e munizioni e osserva: “Ho trovato un caos fantastico: i contratti erano fatti a prezzi pazzeschi, i fornitori non venivano pagati per arenamento di tutte le pratiche amministrative”. E continua osservando che lo Stato firmava i contratti senza entrare affatto nel merito dei costi di produzione (si veda L. Villari, “Le avventure di un capitano d’industria”, Torino, Einaudi, 1991, p. 34). Di qui le proposte di agire al di fuori dell’amministrazione (ivi, pp. 41, 42 e 44).

 

Ma quali sono state le ragioni di questa situazione? 

Solo pochi uomini politici sapevano quale potente forza si nasconde nella burocrazia, nelle incrostazioni amministrative

Lo spiega ancora un uomo di governo: “E’ una manchevolezza di cui si deve far carico la classe politica dirigente di allora: la restitutio in integrum del vecchio apparato dello Stato. Non solo degli uomini, molto adusi alla routine d’uno Stato ormai remoto rispetto alle esigenze di un mondo nuovo, molto viziati di nostalgia per un regime che aveva dato alla burocrazia un potere divenuto, un po’ alla volta, la struttura portante e spesso condizionante se non decisionale come di solito avviene nei sistemi autoritari” (M. Rumor, “Memorie (1943-1970)”, Vicenza, Neri Pozza, 1991, p. 131, riferendosi implicitamente a una responsabilità del “continuismo” degasperiano). Tentativi di modificare la situazione non sono mancati, come testimoniato da Andreotti, che scrive nei suoi diari nel 1977 che in Consiglio dei ministri “si discute come snellire le procedure nella macchina statale. Controlli anche più severi, ma gli interventi debbono attuarsi tempestivamente” (G. Andreotti, “Diari 1976-1979”, Milano, Rizzoli, 1981, p. 97).

 

E le valutazioni dei socialisti, quando entrano nella “stanza dei bottoni”? 

Pietro Nenni nel volume “Gli anni del centro sinistra. Diari 1957-1966”, Milano, Sugarco, 1982, fa oggetto di riflessioni la Pubblica amministrazione quasi ogni anno. Nel 1963, scrive che la Democrazia cristiana ha “modellato a propria immagine gli alti gradi della Pubblica amministrazione” e creato “una infinità di enti”. E aggiunge che non si sa se la Dc li controlli o sia da questi controllata e che compito del Partito socialista è “liberare i fermenti riformatori” (pp. 311-312). Nel 1964 lamenta la “subordinazione degli uffici pubblici ai monopoli” per “l’inefficienza tecnica dei servizi pubblici di tutela e controllo” e le “insufficienze organiche dell’amministrazione dello Stato” (pp. 324-325 e 327). Nello stesso anno, riferisce che Tremelloni giudica l’amministrazione che guida, il ministero delle Finanze, “vecchia, ammuffita, con amanuensi all’epoca della meccanografia, non corrotta, ma tale è” (p. 332). E aggiunge: “Ogni ministero vede il suo settore e basta” (p. 322). Per giungere alla conclusione, nel 1966, che “la riforma dello Stato, della finanza locale, del sistema previdenziale, è ormai il maggiore problema del paese” (p. 677).

 

E quello dei comunisti, quando anche essi entrano nella stanza dei bottoni?

Altrettanto negativo. Fernando Di Giulio, “Un ministro ombra si confessa”, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 101-104, 39-40, 150-155, lamentava l’“assoluta incapacità di direzione del governo” e lo “scollamento dei vari ministeri”, l’“inadeguatezza dell’apparato statale”, la “profondità dei guasti”. Singolare, però, che la sinistra, tanto critica dello Stato, andata al potere, invece di cambiarlo, lo accettò e vi convisse.

 

In anni più vicini a noi? 

 

Il giudizio non cambia: Matteo Renzi si vanta ripetutamente delle sue lotte contro la burocrazia, lamentandone lo “spezzatino di competenze, a compartimenti stagni” (M. Renzi, “Un’altra strada. Idee per l’Italia di domani”, Venezia, Marsilio, 2019, p. 191).

 

Insomma, un vizio di origine.

Molti disegni riformatori si sono fermati all’attività legislativa, dimenticando la fase attuativa, quella più importante

Si assicurò la discontinuità costituzionale e si accettò la continuità amministrativa. Lo Stato venne artificiosamente diviso in due, cambiando una parte, lasciando immutata l’altra parte. Si può fare un’ipotesi per spiegare questa singolare scelta. Politici da lungo tempo lontani dalla realtà italiana, alcuni esuli da dieci – venti anni, da un lato sottovalutavano, per assenza di conoscenza diretta, la crescita dello Stato italiano durante il fascismo; dall’altra ritenevano che bastasse una diversa guida politica per orientare l’amministrazione. Solo pochi, come Massimo Severo Giannini, sapevano quale potente forza si nasconde nella burocrazia, nelle incrostazioni amministrative, nel principio di continuità dello Stato, affidato principalmente alla burocrazia. Infatti, Giannini, con Barbara, preparò per la commissione Forti, nel periodo preparatorio della Costituente, una proposta che avrebbe portato alla eliminazione dei ministeri. Non va sottovalutato un altro elemento, che spinse Togliatti a frenare l’epurazione: il timore che potessero prevalere forze contrarie al rinnovamento politico-costituzionale e il desiderio di pace sociale, di evitare una divisione della società civile.

 

Ma da allora sono passati settant’anni.

E si sono fatte cure palliative. Le ragioni sono molte. Una cultura amministrativa di avvocati, che non studia la realtà degli uffici. Una burocrazia nello stesso tempo timida, inconsapevole dei difetti della macchina che guida, timorosa nel proporne modifiche. Politici sempre transeunti al vertice delle amministrazioni. Più tardi, con la istituzione delle regioni, che hanno ormai mezzo secolo di vita, la difficoltà di padroneggiare e persino conoscere una realtà tanto differenziata.

 

Ma i tentativi sono stati molti, e molti vi hanno partecipato.

Sì, ma sono stati tutti di breve durata, mentre per lasciare un segno di cambiamento nell’amministrazione serve un’azione continua di durata almeno quinquennale. Il risultato è che abbiamo da un lato un enorme bisogno di un’amministrazione migliore, dall’altro tanti cantieri abbandonati all’inizio dell’opera con progetti lasciati incompiuti, alcuni buoni, altri sbagliati. Il difetto di molti di questi disegni riformatori è di essersi fermati all’“attività legislativa, dimenticando la fase attuativa, che è quella più importante. Da ultimo (primo governo Conte), il paradosso è stato quello di aver impostato l’azione legislativa in termini di “concretezza” rimanendo alla sola proclamazione legislativa della concretezza, quindi all’astratto.

 

Ma è corretto buttare tutte le colpe sulla burocrazia?

Giusta domanda. La burocrazia è il terminale ultimo dello Stato, quello a contatto con la comunità, con i cittadini, quello che dà concreta attuazione a molte decisioni prese “a monte”. Tutti gli errori che si fanno prima, vengono scaricati sulla burocrazia. Quest’ultima ha la sua parte di responsabilità, ma finisce per portare il peso anche delle responsabilità di molti altri “attori” del processo di decisione: il Parlamento che decide senza misurare risorse ed effetti concreti delle leggi, governo che crea condizioni difficili per gli amministratori, ponendo sulle loro spalle troppe responsabilità, pluralismo amministrativo che complica i processi di decisione, controllori ciechi e sempre avidi di nuovi compiti, che spaventano, mettono i bastoni tra le ruote, bloccano, e così via.