Jacques-Louis David, “Giuramento della Pallacorda”, 1791

Piano con la democrazia

Sabino Cassese

La sovranità viene attribuita al popolo, ma non è esercitata da questo se non del tutto episodicamente. Un libro

Pubblichiamo un estratto de “Il popolo e i suoi rappresentanti”, il nuovo libro di Sabino Cassese pubblicato da Edizioni di Storia e letteratura (128 pp., 9 euro). Il saggio contiene testi di Vittorio Emanuele Orlando, Silvio Spaventa, Sidney Sonnino, Giovanni Giolitti e Benedetto Croce.

 


 

Lo strumentario linguistico della democrazia è composto di lemmi ai quali è dato solitamente un sovrappiù di significato. Essi costituiscono, quindi, veri abusi linguistici e concettuali. Democrazia, un reggimento politico in passato denominato repubblica o governo rappresentativo (nei “Federalist Papers”, 39, 16 gennaio 1788, si può leggere che republic è un government which derives all its powers directly or indirectly from the great body of the people), non indica – come la parola lascia intendere – un sistema politico nel quale il popolo governa, bensì un’organizzazione del potere di tipo oligarchico, corretta da periodiche elezioni, svolte con forze politiche in concorrenza tra di loro, con numerosi altri istituti e contropoteri diretti a rendere l’esercizio del governo temperato e riflessivo (o controllato). Un vero e proprio autogoverno del popolo non è mai esistito (nella demokratia ateniese solo il 10 per cento del popolo aveva diritto di partecipare alle decisioni) e non potrebbe esistere, considerati sia le dimensioni degli odierni sistemi politici, sia il numero e la complessità delle decisioni collettive da prendere.

 

Un vero e proprio autogoverno del popolo non è mai esistito – neanche nell’antica Grecia – e non potrebbe mai esistere

Anche la democrazia rappresentativa non è tale, perché l’espressione lascia pensare che il popolo agisca mediante propri rappresentanti, mentre, invece, negli ordinamenti moderni non vi è rappresentanza in senso proprio: il “mandato” è indeterminabile e i mandanti sono in numero elevato, con il voto non si può ingiungere o suggerire agli eletti, né si può poi accertare che questi facciano quello che hanno promesso agli elettori, l’eletto è raramente conosciuto dal votante, né il votato conosce i votanti, il rappresentante non agisce in nome e per conto del rappresentato, né imputa ad esso gli effetti della propria azione, perché l’eletto è autonomo rispetto ai votanti. Con la segretezza del voto e con il divieto di mandati imperativi, ogni possibile legame tra rappresentato e rappresentante è escluso. La rappresentanza pubblicistica è del tutto diversa da quella privatistica, tanto che in altre lingue, come il tedesco, vi sono due parole diverse, Vertretung per indicare la rappresentanza in senso privatistico, e Repräsentation per indicare la rappresentanza pubblicistica. “Anche il principe assoluto è rappresentante dell’unità politica; egli solo rappresenta lo Stato”.

 

Secondo la vulgata, in terzo luogo, il rappresentante verrebbe scelto (eletto) dai rappresentati con un’apposita procedura chiamata elezione, cioè un libero atto di volontà. Ma anche questo termine viene usato con un sovrappiù di significati. In nessun paese gli elettori possono indicare sulla scheda elettorale un nome a propria scelta: votano una lista o un nome proposto da partiti o altre forze politiche. Solo in alcuni casi, possono scegliere uno o più nomi all’interno della lista, dando la preferenza. Nei sistemi uninominali o con liste bloccate, l’elettore si limita a dare un assenso. Tuttavia, la procedura chiamata erroneamente di elezione si è affermata e consiste di votazioni libere, ripetute, competitive, con partecipazione detta universale.

 

Una quarta espressione abusata è sovranità popolare. La sovranità, il potere più alto, quello che non riconosce alcun potere superiore, viene attribuita al popolo, ma non è esercitata da questo se non del tutto episodicamente. Singolare figura, questa, di un sovrano che è tale solo di tanto in tanto, piuttosto raramente. In realtà, più realisticamente, diritto e cultura giuridica inglesi parlano di parliamentary sovereignity.

 

I quattro abusi linguistici non avrebbero molta rilevanza (ve ne sono molti altri, in altri campi), se non alimentassero periodiche attese messianiche da parte di lontani pronipoti di Rousseau che si svegliano, notano che la realtà non corrisponde ai nomi, propongono forme nuove di agorà, e trovano persino chi li ascolta. E’ tempo, allora, di fare un po’ di pulizia linguistico-concettuale, partendo dal secondo dei quattro termini, rappresentanza, che è quello chiave. Cosa che proverò a fare tentando una brevissima storia dell’uso del termine, dalla sua introduzione nel ’600 nella teoria dello Stato, fino alle soglie della nostra epoca. Cercando poi di capire a che cosa si pensava che servisse la rappresentanza in Italia, fino al suffragio universale, specialmente a partire dall’Unità. Spiegando poi in che senso vanno propriamente intesi la parola e l’istituto oggi. Illustrando, infine, i motivi della crisi attuale della rappresentanza.

 

Due avvertenze preliminari. Occorre evitare di considerare la rappresentanza in senso astorico, da Hobbes a oggi, come se si trattasse dello stesso istituto, come se non fossero cambiate le condizioni che la permettono. Altro è la rappresentanza senza elezioni, altro quella con elezioni, altro la rappresentanza con suffragio universale, altro la rappresentanza nella democrazia di massa, altro la rappresentanza con determinate formule elettorali. Non esiste, insomma, una rappresentanza unica, atemporale. Qui considero, dopo qualche indicazione storica, solo la rappresentanza moderna, quella che inizia con l’elezione dei “rappresentanti”.

 

In secondo luogo, ricordo la funzione della rappresentanza moderna, che è quella di controllare periodicamente i governanti, rinnovandoli o non rinnovandoli, e quindi di abbandonare il regime monarchico e quelli assimilabili, di governanti scelti sulla base di un diritto di successione (e quindi affidato alla natura) e in carica a vita (salvo dimissioni volontarie, piuttosto rare, o regicidi), principio della perpetuità del potere, ad assicurare il ricambio dei governanti, la loro rotazione nell’ufficio, ad approvare periodicamente programmi e persone incaricate di realizzarli (donde l’importanza di ricordare che essa comporta ripetute elezioni), oltre che a ridurre il numero di una moltitudine in un collegio deliberante.

 

Per questo motivo, il governo rappresentativo ha come caratteristica quella di essere sottoposto a ripetute elezioni, o periodiche elezioni, perché l’approvazione in cui consiste l’elezione va rinnovata nel tempo. Ciò è dimostrato dai casi nei quali governi autoritari, non rappresentativi, si sono affermati, dopo aver avuto accesso al potere attraverso procedure “democratiche” (si pensi a Mussolini e Hitler).

 

La costruzione di un significato

La rappresentanza contiene il “nucleo del problema inerente al concatenamento moderno di Stato e società”. E’ istituto o complesso di istituti di importanza capitale nella storia dei poteri pubblici (non solo quelli statali). Ha quindi attirato un’attenzione particolare delle scienze sociali, per cui sul tema vi sono intere biblioteche. Rappresentanza nasce non dalla dottrina privatistica della rappresentanza (nel diritto romano era nota solo quella indiretta, di una persona che agisce in nome proprio nell’interesse altrui), ma nella dottrina medievale delle corporazioni, dove viene distinta “persona vera” (o fisica) da “persona repraesentata” (ovvero giuridica o morale).

 

La moderna funzione della rappresentanza è quella di controllare periodicamente i governanti, rinnovandoli o no

Subisce poi quattro cambiamenti importanti, il primo di contesto, con Hobbes, nel 1651; il secondo di mezzo nel periodo rivoluzionario (con Burke, i costituenti americani e Sieyès); il terzo di funzione con gli allargamenti del suffragio; il quarto di procedura, con il suffragio universale. Al fondo di ognuno di questi vi è il principio del diritto romano, passato poi nel diritto canonico, secondo cui quod omnes tangit ab omnibus approbetur. Thomas Hobbes, nel Leviatano, si impadronisce del termine e lo traspone nel linguaggio politico: rappresentante è il titolare del potere politico, che agisce sulla base di un’autorizzazione o approvazione dei rappresentati. Diritti e facoltà conferiti al potere sovrano debbono essere conferiti con il consenso del popolo riunito, di ciascuno dei soggetti: uno Stato è istituito quando una moltitudine di uomini si accorda e pattuisce, ognuno con ciascun altro, che a qualsiasi uomo, o assemblea di uomini, verrà dato dalla maggioranza il diritto di rappresentarli tutti, vale a dire di essere il loro rappresentante; ciascuno (…) dovrà autorizzare tutte le azioni e i giudizi di questo uomo o assemblea di uomini, così come se questi fossero loro stessi in persona.

 

L’autorizzazione è costitutiva dell’autorità politica. Oboedientia facit imperantem, secondo la sintesi di Spinoza.

 

Peraltro, l’idea che i governanti dovessero avere un consenso popolare era diffusa, come dimostrato dal XIX capitolo del Principe di Machiavelli, che è del 1513, dove si parla della benevolentia populare: il principe deve satisfare al populo e tenerlo contento, avere il consenso della universalità delli uomini. Burke (1774), i costituenti americani e Emmanuel Joseph Sieyès (1791) fanno il secondo passaggio, indicando il mezzo che conferisce l’autorizzazione: “il n’y a pas de représentation sans élections”. L’autorizzazione o approvazione prende la forma di elezione (“électionnisme”, “electoralism”).

 

Per Burke you choose a member indeed; but when you have chosen him, he is not member of Bristol, but he is a member of Parliament; l’eletto deve curare the general good, resulting from the general reason of the whole. Per James Madison i rappresentanti sono a chosen body of citizens whose wisdom may best discern the true interest of their country, and whose patriotism and love of justice will be least likely to sacrifice it to temporary or partial considerations.

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