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Cosa insegna la Brexit

Col referendum si sceglie un’opzione, non il modo di realizzarla. Per Londra il danno reputazionale è enorme. Parla Sabino Cassese

Professor Cassese, che cosa insegna Brexit?

Che anche la domanda referendaria più semplice può esser interpretata in modi diversi. Nel Regno Unito, la campagna dei sostenitori della partecipazione all’Unione aveva enfatizzato la stabilità economica, quella dei favorevoli a uscire, l’immigrazione. La stessa ambiguità aveva avuto il referendum colombiano. Si vota sulla stessa domanda, ma intesa in modi diversi. L’apparente semplicità della diade Sì/No nasconde molte ambiguità.

 

Una ambiguità che si potrebbe superare con un adeguato dibattito preparatorio.

Ma Brexit illustra anche quel che succede dopo: si imbocca un tunnel, ma non si sa dove conduce. Si sceglie una opzione, non il modo di realizzarla. Ora, i britannici sono dinanzi a tante altre scelte, che sarebbero state considerate in un dibattito parlamentare, soppesate, valutate. Come ha acutamente osservato Federico Fubini sul Corriere della sera del 24 marzo scorso, il Regno Unito “solo ora si sta rendendo conto che non ha mai avuto idea di come realizzarla” (la Brexit). 

 

Anche a questo potrebbe supplire una adeguata preparazione dei votanti.

Difficile, ma possibile. Ma c’è una terza lezione di Brexit, da considerare: la possibilità di tornare indietro. La portata oracolare del pronunciamento popolare rende difficile il ripensamento, rende definitiva la decisione, cosa che nel parlamentarismo è invece possibile. Insomma, il referendum non è lo strumento chiaro che appare, non si presta sempre a dire “pane al pane” e “vino al vino”. Non funziona per decisioni complesse, che richiedono scelte non solo sul “se”, ma anche sul “come”. Può essere variamente interpretato. Quindi, anche un sistema politico come quello britannico, relativamente semplice (bipartitismo, “first past the post”, in sostanza una sola assemblea parlamentare), finisce per bloccarsi a causa di un referendum. Infine, ci sono le osservazioni più di fondo.

 

Quali?

Il potenziale disgregativo del referendum rispetto al parlamentarismo. Se il ricorso al referendum viene contenuto in ambiti ristretti, può arricchire la democrazia che chiamiamo rappresentativa. Se si espande, coabita con difficoltà con il parlamentarismo, finisce per nutrire domande non canalizzate, di tipo ribellistico, o richieste lobbistiche, come dimostrato dalle esperienze californiana e svizzera (che sono, tra l’altro, esperienze a livello locale, non di dimensioni nazionali). Ho altra volta osservato che tutti i guai raccontati da Sofocle nella storia di Edipo derivano dall’aver dato i protagonisti, più volte, ascolto ad oracoli. Il referendum ha molto in comune con gli oracoli. Non è preparato da “deliberation” (ponderazione, discussione). Non è motivato. Si esprime in forma breve, con un comando sintetico.

 

Il referendum sulla secessione britannica dall’Unione europea ha ulteriori caratteristiche, che sono peculiari della tradizione britannica.

Una in particolare. Si è svolto, per decisione di un politico imprudente, che contava su un’altra risposta popolare, in un Paese che ha sempre creduto fermamente nella “parliamentary sovereignty”: un dogma di quel Paese è quello che il Parlamento ha l’ultima parola. Lo spiegò, nel libro che è stato la Bibbia del costituzionalismo inglese, nel 1885, Albert Venn Dicey. Il Parlamento, non il popolo è lì sovrano. Tant’è vero che, dopo che il referendum si è svolto, la Corte suprema ha costretto il Parlamento a pronunciarsi. Non dimentichiamo che Clement Attlee, a Winston Churchill che nel 1945 proponeva di sottoporre a referendum l’estensione del termine di durata del Parlamento, rispose che non concordava con l’introduzione nel Regno Unito di un meccanismo estraneo alla tradizione britannica, strumento invece del fascismo e del nazismo. Il New Statesman, un periodico di sinistra, nel 1970, osservò che, se il Regno Unito fosse stato governato con referendum, avrebbe avuto ancora la pena di morte, la proibizione dell’aborto, il rimpatrio degli immigrati, la punizione degli omosessuali, il divieto di sciopero.

Ma ora tutti gli occhi sono puntati sul Regno Unito.

Gli occhi e le bocche, e queste ultime per dire che il sistema politico britannico è ridotto davvero male. Ritengo la vicenda Brexit causa di un enorme danno reputazionale per il Regno Unito. Quest’ultimo è stato oggetto di ammirazione per almeno tre secoli, in tutto il mondo civile, per la qualità del suo assetto politico. Pensi a quale reverenza c’è stata nei confronti della “Magna Carta”. Pensi al posto dell’esperienza britannica nell’opera famosa di Montesquieu, “L’Esprit des lois” (il giurista di Bordeaux trae il principio della separazione di poteri dall’esame della esperienza britannica). Pensi all’ammirazione con la quale grandi spiriti come Alexis Tocqueville e Hippolyte Taine hanno studiato il sistema politico inglese. Pensi a Mazzini e poi a tutta la tradizione politica e giuridica italiana, che, nonostante il “germanesimo” imperante, quando doveva fare riferimento a un modello politico-istituzionale da seguire, guardava oltre Manica. Questo, d’ora in poi, non sarà più possibile.

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