Foto di tam wai, via Unsplash 

Il figlio

"Tempo di neve". Il racconto del ricongiungimento tra una madre e una figlia

Giacomo Giossi

La scrittrice Jessica Au descrive l'inevitabile distanza del rapporto con i genitori. Lo fa attraverso dei "non luoghi". E mentre non si prefigura un tempo futuro, e quello passato è capace solo di recuperare ricordi, l'unico in cui si può vivere è il presente dell'incontro

Il ritratto di una madre e di una figlia è spesso il ritratto di una distanza. La prima cosa ad apparire davanti agli occhi è la differenza come concetto e anche inevitabilmente come sostanza. Una differenza che, anche seppure minima, indica comunque radicalmente uno scarto tanto rapido quanto profondo, se non addirittura definitivo, tra l’una e l’altra donna. 
Raccontare un rapporto tra una madre e una figlia pretende cura estrema e un’attenzione particolare che nel caso di Jessica Au assume la forma immaginifica di un’abilità narrativa capace di stare in un perfetto, quanto inquieto, equilibrio. Tempo di neve, ora tradotto per Il Saggiatore da Federica Merati è il testo d’esordio di Jessica Au. Un racconto lungo, vincitore del Novel Prize che avvicina la scrittrice e giornalista australiana ad autrici come Rachel Cusk e Ottessa Moshfegh per la capacità di dare forma ad una sorta di minimalismo barocco in cui l’inesorabilità dell’esistenza entra in conflitto con l’inevitabilità dei desideri. Due di quelli che si fronteggiano in Tempo di neve: quello della figlia di potersi finalmente ritrovare a casa - una casa esistenziale ed emotiva -, e il desiderio del ricordo e del suo valore icastico che riverbera negli atteggiamenti muti dell’anziana madre. 

 

Avviene così che il luogo del primo ritrovarsi è quello che viene banalmente definito “un non luogo”, un’aeroporto. Primo di una lunga serie di non luoghi composta da stazioni e alberghi, come a segnalare l’evidenza di un’estraneità reciproca e forse incolmabile. Tuttavia seppure muovendosi da poli contrapposti, i desideri agiscono nel profondo delle due donne. Così mentre la figlia osserva questa donna che mai aveva varcato i confini di un piccolo paese alle porte di Hong Kong, la madre si muove in quello che è a tutti gli effetti un mondo ignoto, con il sospetto di chi teme la differenza come forma di disaffezione. 

 

La densità del racconto di Jessica Au è data così proprio dalla sua capacità di soffermarsi sui particolari laterali che definiscono e mettono a fuoco il carattere delle due donne, piccoli riferimenti al passato, annotazioni di stile oltre che di gusto. Tutti gli elementi convergono verso quella che appare da subito una distanza incolmabile, ma che ben presto si rivelerà quale solo la ramificazione di un’unica pianta ancora ben piantata nel terreno da cui le sensazioni come i gesti di entrambe traggono origine. Kyoto in particolare, insieme alle altre mete di questo tour giapponese, illumina il racconto che diviene per certi versi anche una vera e propria guida del Giappone. Gli sguardi si incrociano, qualche parola sembra gocciolare piano piano fin a sciogliersi in un ritrovato lessico comune.

 

Non è più recuperabile il tempo passato, ormai buono solo per degli aneddoti incapaci di risvegliare alcuna comune appartenenza, e diviene sempre più improbabile anche un tempo futuro, schiacciato da una diversità di prospettiva e di sguardo evidente e per entrambe estraniante. Resta però il tempo presente, o meglio contemporaneo. Quel tempo che vive negli interstizi di un viaggio, come di una giornata. Uno spazio comune irriducibile, vergato di malinconia non c’è dubbio, ma ancora vivido e potente. Giocando con continui flashback, Au affianca sul medesimo piano il presente con la memoria, l’accadimento con la traccia di ciò che avvenne. Un libro ayurvedico, che oppone all’obbligo di un unico tempo possibile quello di un tempo comune. Essere contemporanei e dunque esistenti vuol dire partecipare alla memoria come al presente attuale. Avviene così che nello spazio minimo di un incontro madre e figlia colgano finalmente uno spazio altro in cui esistere pienamente (e semplicemente) l’una per l’altra.

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