il figlio

Dov'è la ragazza con i capelli rossi e la voce alta? Eccoti, mamma, ti aiuto io

Angelo Molica Franco

Quando ero piccolo, l’unico modo di convincermi a fare il bagno era trasferirmi nella vasca per “fare la tempesta”. Anche oggi la porta è chiusa, e gli altri sono fuori. Siamo di nuovo soli, mia madre e io. Ma il suo corpo non è più quello dei miei ricordi

Poche settimane fa, a trentasette anni, ho fatto per la prima volta il bagno a mia madre. Dopo un delicato intervento e il ricovero postoperatorio di qualche giorno, l’ho portata a casa un po’ claudicante e affannata. Ho disfatto la sua valigia, messo i capi sporchi nella cesta, riposto i due anelli e il bracciale da cui non si separa quasi mai nel portagioie e l’ho aiutata a svestirsi. Durante la degenza non avevo potuto andare a trovarla per le norme anticovid e aspettavo la videochiamata delle cinque del pomeriggio quando le portavano il tè e la facevano alzare. Nel filo di phard che si dava e il cerchietto a fascia che indossava – il più prezioso, quello di velluto blu con gli swaroski – c’era tutto lo sconfinato amore per me, la cura di non farmi preoccupare. La cipria cosparsa sopra i solchi della paura

  
Ora invece non c’è nessun trucco. I piedi gonfi una volta tolte le scarpe, la pelle tesa e pesta per l’intervento che si svela quando cade l’abito, il grande cerotto di traverso tra il collo e il seno una volta sfilata via la sottana. Ora c’è solo la verità. Mentre le preparo l’acqua – non troppo calda da scottarsi, non troppo alta da bagnarsi le medicazioni, non troppo schiumosa perché la schiuma non le vada sul naso – un ghigno le increspa la curva  della bocca quando mi dice: “Niente tempesta, però”.  

   
Quando ero piccolo, l’unico modo di convincermi a smettere di correre o giocare in giardino per decidere di andarmi finalmente a fare il bagno era trasferirmi nella vasca per “fare la tempesta”. Succedeva sempre alle sette di sera, prima di cena: ovunque fossi, mia madre mi chiamava all’appello. Indossava il costume, gli occhiali da sole, il cappello a falda larga, prendeva un libro di favole e seduta dentro al bidet mi leggeva una storia dove a un certo punto scoppiava sempre una tempesta. Quel bagno, lo stesso di oggi in cui la vasca era però colma fino all’orlo e traboccante di schiuma, si trasformava in una specie di spiaggia deserta di un’isola lontanissima e destinata solo a noi due, naufraghi dalle nostre esistenze.

 

Tutto iniziava con un suo gesto: alzava il braccio destro e, sfregando il pollice sull’indice e il medio, fingeva di spargere su di me una dose di polvere magica. Lei diceva “Ecco i semini della fantasia”. L’arco disegnato da quella mano circoscriveva un mondo dove sarei stato al sicuro, protetto, dove potevo essere ogni cosa desiderassi. La porta era chiusa, gli altri erano fuori. La tempesta dentro quella piccola vasca era semplice da realizzare: facevo di tutto per bagnare mia madre, allagare tutto intorno, mi dimenavo in capriole, lottavo contro il serpente della doccia fino ad affogarlo. E ridevamo. Soprattutto quello: ridevamo.

 

Mio padre non poteva entrare. Tutte le volte che ci chiedeva “Ma che combinate dentro a quel bagno?”, lei mi guardava e rispondeva semplicemente “Facciamo la tempesta”. A quello sguardo devo tutto quello che sono. Nelle storie che mia madre raccontava, e che mettevo in scena sul momento sotto il suo sguardo felice, io non ero mai il pirata, il principe, o l’eroe, mai il capitano, il mozzo o il marinaio. 

 

       
Anche oggi la porta è chiusa, e gli altri sono fuori. Siamo di nuovo soli. Ma il suo corpo non è più quello dei miei ricordi: il fisico nervoso e scattante tra le efelidi e i nei nel costume intero viola e bianco ha lasciato il posto a delle membra imbolsite e stanche. Ora mia madre è seduta su una specie di piccolo materassino gonfiabile da mare e le friziono le gambe con un guanto di crine senza calcare troppo. Mi concentro sui talloni, sugli stinchi e le ginocchia. Poi passo alla schiena, i gomiti e infine le spalle. Sulle labbra recintate nel silenzio leggo le mie stesse domande sconfitte: dov’è finita la furia dai lunghi capelli rossi con la sigaretta sempre tra le dita e la voce troppo alta? Chi è questa vecchina muta col tuppo dietro la nuca che si è dovuta togliere pure l’ultimo vizio che si era lasciato? A un tratto, sotto la mia mano la avverto irrigidirsi, stringere i pugni e arcuare i piedi. Si è trasformata in un blocco di ghiaccio che si rifiuta di lasciarsi calmierare dall’acqua tiepida: dietro le palpebre serrate, sta trattenendo un rovescio di lagrime da guerriera spezzata. E tocca a me aiutarla a trionfare sulla tempesta. Sfilo via le forcine, le sciolgo i capelli. Mi avvicino all’orecchio e le dico: “Oggi la lascio fare a te la sirenetta”. 

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