La copertina di "Io non sono Islam", graphic novel scritta da Benedetta Argentieri e illustrata da Sara Gironi Carnevale

Io non sono Islam

Giuseppe Fantasia

Il sogno di libertà di Islam Mitat, ostaggio dello Stato islamico per tre anni, e la ferocia delle donne

Studiare all’estero, crescere, costruirsi una carriera e poi una famiglia, fare eventualmente dei figli. Era questo il futuro che aspettava Islam Mitat, giovane donna marocchina di Oujda. Sin da piccola, vedeva l’Occidente come una terra promessa, il posto da raggiungere per realizzare il suo sogno in libertà: fare la fashion designer a Londra. A sostenerla nelle sue scelte, ci sono sempre stati il padre poliziotto e la madre casalinga, ma da musulmani moderati e rispettosi delle tradizioni non le avrebbero mai permesso di trasferirsi nel Regno Unito senza sposarsi. Lei non si è persa d’animo, si è iscritta su un sito di incontri online (Muslima.com, molto in voga tra i musulmani anche per aggirare le regole rigide imposte dalla religione sulle relazioni) e dopo poco è riuscita a conoscere Ahmad, un bel giovane afghano con cittadinanza inglese e con uno stile affine ai suoi gusti. Tutto procede molto velocemente: si conoscono, lui va in Marocco per chiederle la mano e poi si sposano. Dopo un mese Ahmad le dice di aver trovato lavoro in Turchia e di volerla portare a fare una vacanza per conoscere il loro futuro paese. Islam non sa ancora che quello sarà l’inizio del suo inferno nella Sharia, la legge islamica che insegna anche il tafkir, cioè l’uso della violenza contro eretici, civili e infedeli. Islam, dopo tre anni, è riuscita a scappare. La storia di questa ragazza che nel mondo è stata poi conosciuta come “La sposa di Isis”, ci viene raccontata da Benedetta Argentieri, giornalista e regista, nel suo libro “Io non sono Islam” (Magazzini Salani), una graphic novel finemente illustrata da Sara Gironi Carnevale, “una scelta – spiega l’autrice – nata dal desiderio di dare la possibilità ai lettori di ogni età di conoscere un’esperienza così traumatica”.

 

“Quando sono entrata nella casa delle donne a Qamishli, in Siria, non sapevo bene cosa aspettarmi”, racconta Benedetta Agentieri che dal 2014 si occupa di conflitti e medio oriente, raccontati anche nel documentario I am the revolution e poi in Our War. “Da una stanza è uscita Islam con i capelli sciolti, un cerchietto con il fiocco rosso e blu, un paio di jeans e una maglietta. Ho notato subito lo sguardo perso, triste. Anche se sorrideva, sembrava che i suoi occhi chiedessero aiuto e comprensione, così come affetto e solidarietà”. Islam aveva all’epoca 22 anni ed era passato poco più di un mese da quando era scappata da Raqqa, la capitale dello Stato islamico. “Non ti dimenticare di me, mi ha detto lei stringendomi le mani quando ci siamo salutate”. In questi anni sono rimaste in contatto. Benedetta Argentieri ha seguito l’evoluzione di questa vicenda, il ritorno in Marocco della ragazza, la gogna mediatica, i lutti (Islam ha perso tutti e tre i mariti) e le speranze infrante. La sua storia ha fatto il giro del mondo ed è stata raccontata da tanti media internazionali, ma in troppi l’hanno presa come l’emblema delle donne dell’Isis, ovvero vittime di fidanzati e mariti che le hanno trascinate nel Califfato, “una spiegazione semplice – precisa l’autrice – per non capire davvero il fenomeno di Daesh: danno alle donne un ruolo secondario nel gruppo terroristico che ha scosso il mondo”. Al contrario di molte donne che sono partite volontariamente per quello Stato in cui nessuno si sarebbe sentito escluso, Islam è una vittima e la sua è una storia di coraggio e di riscatto che ripercorre la terribile avventura di una ragazza che, come tante, ha conosciuto il terrore ed è stata vittima dell’ideologia estremista per tre lunghi anni. “Le donne avevano – e tuttora hanno – un ruolo vitale per Isis”, scrive la Argentieri in questo libro necessario: immagini, disegni e parole che fanno male e raccontano meccanismi spesso oscuri. Se gli uomini vengono mostrati nei video dei combattimenti e di violenza, le donne sono sempre state trattate come un’arma segreta. Una volta arrivate in Siria, hanno avuto tutte un training ideologico e militare: dovevano saper sparare per difendersi, ma mentre loro combattevano per una vita di reclusione e di sottomissione, in cui l’unica libertà è la ferocia, a vincere sono state poi le donne dello Ypj, l’Unità di protezione delle donne, parte delle Forze democratiche siriane, quelle che hanno salvato e ospitato a lungo Islam. Ma in Siria vige il caos, perché troppe donne di Daesh che si sono unite al Califfato hanno un ruolo fondamentale per la sopravvivenza dello Stato islamico. Hanno le chiavi dell’ideologia, ed è questo che basterebbe a far paura e a far riflettere visto che il loro compito è proprio quello di educare i loro figli, la prossima generazione di jihadisti che già vive nell’odio e nel rancore, e saranno presto protagonisti di una nuova guerra ideologica che è pronta a bussare alle nostre porte. I figli di Islam Mitat sono, invece, la nostra speranza.

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