Murale di Dostoevskij a Portland, Oregon (Wikipedia) 

Il bi e il ba

L'umorismo di Dostoevskij racconta gli indignados di oggi

Guido Vitiello

Nel "Villaggio di Stepàncikovo" l'eroe si guadagna un seguito grazie a vittimismo e moralismo passivo-aggressivi. Vi ricorda qualcuno? Un romanzo che anticipa un ampio spettro di caratteri, dai giustizieri social ai vendicatori della cancel culture

Ogni secolo ha il romanzo di Dostoevskij che si merita, o quello che si può permettere. Il Novecento totalitario è stato senza dubbio il secolo dei “Demoni”; questo primo segmento del ventunesimo secolo, al contrario, viene dritto dal suo romanzo più umoristico, “Il villaggio di Stepàncikovo”, e il vero eroe del nostro tempo si chiama Fomà Fomích. Chi era costui? Dostoevskij lo descrive come un uomo dall’amor proprio illimitato pur senza talenti speciali su cui fondarlo, morbosamente irritabile e affetto dalla più mostruosa permalosità. Modestissimo scrittore di provincia con sogni di gloria nazionali, Fomà “s’era formato un gruppetto d’idioti che lo veneravano”, e siccome al di fuori della sua cerchia non lo lodavano abbastanza, “cominciò a lodarsi da sé”. In compenso, come parassita Fomà è un prodigio di virtuosismo: si pianta in casa di un’anziana generalessa e del figlio colonnello, e qui diventa “signore assoluto e profeta”. Ma come riesce una simile nullità, “il più pusillo degli uomini”, a conquistare un potere tirannico su tutti gli abitanti della casa, padroni e servi? Si fa strada con mezzi che al lettore di oggi dovrebbero suonare fin troppo familiari: la postura vittimistica (anche in nome di altre vittime, se torna comodo), le affilate armi dialettiche del moralismo passivo-aggressivo, la capacità retorica di trasformare ogni inezia in un’offesa, e in un’offesa personale, l’abilità quasi magica nel far sentire gli altri in debito senza peraltro mai largire un credito, il ricorso allo sputtanamento pubblico santificato come opera di giustizia.

Come prima cosa, Fomà si dedica ad angariare il figlio di un servo che balla il kamàrinskij mužìk, danza popolare che celebra le imprese di un contadino ubriaco. Fomà fa chiamare il colonnello e gli dice, in soldoni: spero bene che abbiate deciso di mandare in rovina quel disgraziato idiota. Il colonnello non capisce cosa abbia fatto di male il ragazzo, dopotutto è soltanto una canzone, e a Fomà sale l’indignazione alla testa: “Ma avete voi ancora un giusto concetto di cosa sia il kamàrinskij? Sapete voi che questa canzone raffigura un ripugnante contadino che tenta, in stato di ubriachezza, la più immorale delle azioni?”. E soprattutto: “Ma capite che con la vostra risposta avete offeso i miei più nobili sentimenti? Capite che con la vostra risposta mi avete offeso personalmente? Lo capite o no?”. 

Quando poi Fomà scopre un appuntamento amoroso di quel buon vedovo del colonnello con una governante che vive nella casa, trova il modo di spremerne il massimo vantaggio: “Io lo propalerò questo segreto, e compirò la più nobile delle azioni! Io apposta sono stato mandato da Dio in persona, per smascherare il mondo in tutte le sue turpitudini! Io son pronto a salire sul tetto di paglia di qualche contadino e a gridare di là la vostra ignobile azione a tutti i proprietari dei dintorni e a tutti quelli che arrivano!”. I suoi stratagemmi tartufeschi hanno l’effetto di un sortilegio magico. Tutti gli abitanti della casa, come ipnotizzati, elogiano la sua virtù, e pensano che accontentandolo, e scusandosi continuamente con lui, Fomà si ammansisca. Avviene l’esatto contrario: “Egli inacerbì, inacidì, fece lo schizzinoso, si arrabbiò, sgridò”; ma la venerazione verso di lui “non solo non diminuiva, ma anzi cresceva ogni giorno, in proporzione dei suoi capricci”. 

Scommetto che i lettori arrivati fin qui avranno già lanciato le loro congetture su chi siano i Fomà Fomích dei nostri giorni. Secondo le antipatie e le inclinazioni, alcuni avranno riconosciuto subito i grillini (e come non pensarci, del resto?), altri i sovranisti scrocconi, o i postfascisti piagnoni, o gli influencer bulli, le iene televisive, le femministe dell’ultima generazione, i giustizieri dei social network, i neomaoisti universitari, gli attivisti carrieristi che salgono a bordo dei taxi del bene, i vendicatori della cancel culture che trovano “problematica” la canzone sul mugico molestatore e vogliono mandare in rovina il figlio del servo che la balla… La verità, cari miei, è che avreste tutti più o meno ragione, e proprio per questo Fomà Fomích merita di essere riconosciuto come l’eroe del nostro tempo. Egli ha messo a punto una tecnica del potere – politico, mediatico, intellettuale – che consente, senza nessun costo apprezzabile, di mettersi dalla parte giusta e far vergognare quelli dalla parte sbagliata. Ha scoperto, cioè, che alcuni elementari giochi psicologici e dialettici, se giocati ad arte, offrono una insperata scorciatoia per chi non ha il talento, ma ha l’ambizione; o per chi qualche talento ce l’ha, ma vuole dargli comunque una spintarella; per chi conta poco numericamente, ma aspira all’egemonia morale su un fronte politico o sociale; per chi ha molto talento e magari anche molti milioni, ma vuole moltiplicare il fatturato scatenando il suo “gruppetto d’idioti” – leggi: follower – contro un bersaglio utile. “Il romanzo è finito. Gli amanti si unirono, e il genio del bene s’insediò definitivamente nella casa, in persona di Fomà Fomích”.
 

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