Valeria Fedeli (foto laPresse)

Niente predicozzi sugli smartphone, portarli in classe si può. Così

Antonio Gurrado

Valeria Fedeli e il decalogo sui telefonini in aula. Basta proibizioni o calmieri, perché la scuola o è fuori dal mondo o è parte di esso

Il perfido Seneca scrisse che l’imperatore Claudio, avendo saputo del proprio funerale, capì finalmente di essere morto. Oggi il Ministero dell’Istruzione, avendo preso atto dell’inevitabile dilagare più o meno clandestino di telefonini fra i banchi, ha finalmente sancito che “proibire l’uso dei dispositivi a scuola non è la soluzione”. È il terzo punto del decalogo di indicazioni che il ministro Fedeli ha presentato a Bologna, nella convention Futura, rivelando il frutto del lavoro di una équipe di quindici esperti di insegnamento, comunicazione e digitale.

 

Si tratta in effetti di una grande novità, in quanto l’evoluzione tecnologica repentina e inarrestabile ha imposto un commisurato sforzo da parte della scuola per mettersi al passo coi tempi; e, se lo si considera dal versante delle indicazioni concrete, si tratta di un decalogo pragmatico e di buon senso. Ogni novità comporta cambiamenti – esordisce il decalogo – che non vanno rifiutati ma compresi e metabolizzati; la scuola è di per sé un ambiente permeabile alle tecnologie digitali, di cui promuove l’utilizzo ai fini didattici, e dirigenti e insegnanti devono essere il motore di quest’innovazione; guidando l’uso della tecnologia, la classe docente deve promuovere l’autonomia dei discenti e sostenere un approccio consapevole al digitale; il digitale trasforma gli ambienti di apprendimento, rendendo necessario un rafforzamento dell’alleanza fra comunità scolastica e famiglie ma, soprattutto, volgendo il sistema dell’istruzione verso il fine dell’educazione alla cittadinanza digitale.

 

Bene, queste sono le direttive contenute nel decalogo. All’atto pratico, molto resta (giustamente) in mano alla libera iniziativa delle singole scuole e dei singoli docenti: a ciascuno di loro viene lasciata la scelta responsabile di quale e quanta tecnologia utilizzare durante le lezioni, mentre ai regolamenti scolastici, con tutta l’elasticità del caso, spetta il compito di stabilire “modalità e tempi dell’uso e del non uso, anche per imparare a riconoscere e a mantenere separate le dimensioni del privato e del pubblico”. Tradotto, gli insegnanti e i presidi avranno il compito di far capire agli alunni che utilizzare lo smartphone per una ricerca sul vocabolario Treccani online va bene, utilizzarlo per sfogliare oziosamente gli ultimi aggiornamenti su Instagram o peggio non va bene. Questo, credo, sottintendeva il ministro Fedeli dicendo che, poiché il digitale è una “sfida decisiva”, il compito di noi che lavoriamo a scuola è quello di non essere “consumatori ma protagonisti”.

 

Questo principio viene ben rispecchiato nel quinto punto del decalogo, paragrafo centrale e suo perno ideale: “I dispositivi devono essere un mezzo, non un fine”. Tuttavia, se vogliamo elevarci dal piano concreto a quello teorico, il decalogo sembra a tratti avvitarsi su sé stesso e su una certa banalità d’intenti proprio perché, essendo tutto incentrato sull’impatto che gli smartphone possono avere sulla scuola, li tratta da fine e non come mezzo. Anche gli occhiali sono uno strumento per l’apprendimento, ma non per questo necessitano di un decalogo per spiegare agli alunni che vanno utilizzati per guardare la lavagna (multimediale, certo) e non per conficcarli nella schiena dell’incolpevole compagno di banco. La verità che traspare dalle indicazioni, volenterose e sensate, del Ministero risiede in un equivoco di fondo sulla definizione stessa di smartphone – e, più in generale, di dispositivo.

 

Per la struttura permanente dell’istruzione, ossia il corpo docente con tutto l’annesso dirigenziale e amministrativo, si tratta di un oggetto che interviene come fattore di squilibrio in una quotidianità previamente cristallizzata, in quanto consente agli studenti la realizzazione capillare benché virtuale dell’evasione dalla scuola. Per la struttura contingente dell’istruzione, ossia i singoli alunni che sono fra i banchi adesso ma senza intenzione di passarci la vita, si tratta di un oggetto che costituisce non solo un naturale prolungamento del corpo umano ma anche una lente attraverso cui guardare il mondo, e come tale è neutra.

 

La diatriba a mio avviso è piuttosto sul rapporto fra scuola e mondo. Se si vuole che la scuola sia fuori dal mondo, o contrapposta a esso, allora il decalogo svolge il suo ruolo nel contingentare l’utilizzo dello smartphone e nel creare l’unica porzione di giornata in cui la sua presenza non sia pervasiva (esattamente come se, ai miei tempi, un professore avesse il compito di dirmi quando potessi o meno indossare gli occhiali). Se si vuole invece che la scuola sia parte del mondo, e gli alunni non vi si sentano spaesati – senza che per questo perdano rispetto per il luogo, rifugiandosi nei sotterfugi o nell’ostilità – bisognerebbe accettare che lo smartphone è uno strumento di continuo accompagnamento quotidiano, piaccia o meno, e che tutti hanno imparato da soli a gestirne l’utilizzo pubblico e privato a seconda di come le circostanze e la convenienza richiedano.

 

Più che a predicozzi sulla cittadinanza digitale e sull’approccio consapevole, dovrebbe essere lasciato all’esperienza dell’alunno il capire che un retto utilizzo dello smartphone in aula porta a un miglior rendimento, mentre un utilizzo sconsiderato è deleterio. Uno dei modi migliori per far crescere i nostri ragazzi è di avere la fiducia di trattarli come adulti e aspettare che imparino più da errori e intuizioni che da proibizioni o calmieri: questo significherebbe trattare i dispositivi come mezzo e non come fine.

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