Il ministro dell'Istruzione Valeria Fedeli e il congiuntivo sbagliato nella sua lettera al Corriere della sera (foto LaPresse)

Altro che congiuntivo, il problema è l'approccio del ministro Fedeli alla storia

Antonio Gurrado

Nella disputa tra il Corriere della Sera e il Miur sbagliano entrambi

Perfino il greve popolano cui davano voce i sonetti del Belli – quando, per intenderci, esclamava “Che mme ne preme un cazzo de l’istoria!” – sarebbe corso, avesse posseduto un profilo social, a deridere il congiuntivo sbagliato da Valeria Fedeli (o dal suo portavoce) nella lettera sullo studio della storia indirizzata al Corriere della Sera.

 

  

Reazione degna di un popolo abituato a disaminare il dito anziché accorgersi della luna, ha oscurato il ben più preoccupante approccio che il ministro intende riservare alla materia in questione. Gian Antonio Stella l’aveva rimbrottata perché gli italiani non studiano la storia quindi appendono a casaccio bandiere naziste, o forse prussiane, e non sanno rispondere alle domande de “L’Eredità” su Hitler.

 

Valeria Fedeli ha argomentato che la storia va scritta con la maiuscola perché è “una cosa seria”, che dev’essere “metodo critico di percezione dei fatti prima ancora che cognizione degli eventi”, “dialogo, comprensione di senso, scoperta dell’alterità”; e che deve “penetrare nelle coscienze dei nostri ragazzi in modo più profondo”, “stimolare lo studio del presente per interpretare i processi in atto”, essere “un valore alla base della coscienza democratica”. Dire che “c’è sempre più bisogno della Storia, specie in questa fase buia della contemporaneità” significa non riconoscere, anzitutto, che il problema dello studio della storia è proprio l’iniziale maiuscola: a parte che mi sembrano parimenti serie la Fisica Quantistica e la Paleografia, che richiedono altrettante precisione e dedizione, è ingannevole ritenere che l’utilità di una materia si misuri in termini di comprensione del mondo. Anzitutto perché ogni branca dello scibile aiuta a capirne un ganglio, e sono passati i tempi in cui si reputava una materia ancillare rispetto a un’altra. Poi perché l’istruzione italiana è stata ostaggio dello storicismo (a scuola si chiama Letteratura italiana o Filosofia lo studio della storia delle medesime, eccetera) senza che ciò abbia elevato la cultura media dei connazionali. Infine perché la formula utilizzata dal ministro sottintende la trita presunzione che la storia abbia finalità etiche, che si possa imparare dagli errori del passato, che la conoscenza produca bontà e che i malvagi, nel corso dei secoli, abbiano commesso malefatte perché non avevano sottolineato a dovere il Brancati o il Sabbatucci-Vidotto.

 

Stella inneggia a un ritorno nozionistico dimenticando che, diceva Umberto Eco, l’erudito di oggi non è chi sa tutte le date ma chi sa dove trovarle infallibilmente; la Fedeli invece a una lettura a chiave che svilisce la storia a catechismo. Carlo Conti non balzerà mai fuori da un armadio per domandarvi l’anno dei decretali dello pseudo-Isidoro o le riforme del Meji Tenno, e difficilmente si potrà utilizzare questi eventi per regolamentare la nostra rettitudine di cittadini contemporanei; eppure la storia esige che li si studi, senza maiuscola. Si può inoltre presumere che i derisori del congiuntivo infelice non siano tutti cruscanti pertanto non sappiano che, stando a Montale, la storia non è magistra di niente che ci riguardi. Troppo impegnati a cogliere in castagna la grammatica, non si accorgono che in pratica il ministro sta presupponendo che gli uomini restino sempre uguali nel tempo e possano trarre giovamento da esperienze plurisecolari decontestualizzate; convinzione aulica che però coincide con la faciloneria del greve popolano del Belli, sempre lui, quando concludeva: “Bast’a ssapé cc’ogni donna è pputtana, e ll’ommini una manica de ladri: ecco imparata l’istoria romana”.