Il (triplo) sistema Piccolo Teatro alla prova d'Europa

Daniele Bonecchi

Il simbolico addio di Arlecchino, il post Ronconi. Storia idee e conti in ordine. Parla Carrubba 

Quando Ferruccio Soleri, nei panni di Arlecchino, poche settimane fa, ha calcato per l’ultima volta il palcoscenico del Piccolo Teatro, dalla platea è salito un abbraccio, più che un applauso. Perché con lui, dalle tavole del più grande teatro italiano, se ne andava forse la (quasi) secolare storia di una cultura che ha fatto grande anche Milano. Perché Ferruccio Soleri ha rappresentato per decenni il teatro d’Europa, voluto da Giorgio Strehler, Paolo Grassi e Nina Vinchi nel primo Dopoguerra (nel 1947 fu il primo stabile italiano), proseguito poi da Luca Ronconi e fatto vivere oggi da Sergio Escobar, che del Piccolo è direttore da vent’anni e oggi si avvale della consulenza artistica di Stefano Massini, che di Ronconi è stato assistente. Anche un monumento per la storia della sinistra del ’900, un punto fermo per la Milano riformista ed europea, per il mondo dello spettacolo. Un teatro che negli anni ’70 va nei quartieri popolari mentre le straordinarie macchine dell’“Orlando Furioso” di Ronconi in piazza Duomo aprono cuore e sentimenti di una intera città.

 

Si chiude dunque un ciclo per il Piccolo? “Con tutto l’affetto e il riconoscimento per ciò che Soleri ha rappresentato nella storia del Piccolo e del teatro italiano ed europeo, non credo che si chiuda un ciclo, anzi la regia stessa del modo con cui abbiamo salutato Soleri, dice che si continua”, spiega Salvatore Carrubba, presidente del Piccolo Teatro, già assessore alla Cultura con Albertini fino al 2005 e direttore del Sole 24 Ore. “Arlecchino è entrato nella storia della città ed è diventato un momento distintivo del Piccolo e quindi continua, sull’intuizione che portò Strehler e Grassi a inventare uno strumento per la diffusione della cultura popolare attraverso il teatro. Non si chiude un ciclo perché il Piccolo si identifica con la storia civile e culturale di Milano”, spiega Carrubba.

 

“L’anno scorso il sindaco Sala ha insistito sul fatto che il Piccolo potesse confermare le politiche di ‘ricucitura’, come dice giustamente Sergio Escobar, con le periferie. La storia del Piccolo poi è un continuo, nel sentirsi parte dell’identità della città. Milano si presenta nel mondo con la Scala e il Piccolo, di questo si sente un riflesso anche nella nuova stagione. C’è una forte apertura internazionale che si manifesta col ciclo di spettacoli in collaborazione coi teatri russi, e nella presenza di grandi artisti e registi internazionali che spesso per la prima volta vengono a produrre una loro opera qui al Piccolo”. Infatti gli spettacoli internazionali della stagione 2018/2019 si aprono con una parentesi russa – Le Stagioni russe in Italia, festival promosso dal ministero russo della Cultura – che vedrà protagonisti Valerij Fokin, Andrij Zholdak, Rimas Tuminas, Anton Okoneshnikov. La nuova stagione si muove nel segno di una sfida artistica e produttiva aperta a un orizzonte internazionale, che oggi, ancora di più, entra nel sistema produttivo, come dimostra la scelta di aprire la stagione con due produzioni dirette da registi come Declan Donnellan e Thomas Ostermeie.

 

La “macchina culturale” del Piccolo è un’offerta che raggiunge 300 mila spettatori ogni anno e 25 mila abbonati, di cui la metà sono sotto i 26 anni. “Ma ci sono anche aspetti meno conosciuti ma altrettanto importanti – continua Carrubba – come la cultura manageriale, per la quale Escobar si è battuto in questi anni, con alcuni spettacoli rappresentati da noi per mesi. Una scelta vincente, anche dal punto di vista della gestione il Piccolo può essere considerato un modello”.

 

Un modello pubblico che funziona, quello della Fondazione Ente Autonomo Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa, con i conti in ordine e in pareggio. Il bilancio consuntivo 2016 superava i 20 milioni di euro, quasi per la metà è realizzato attraverso autofinanziamento, una performance ottima a fianco dei maggiori teatri di prosa europei.

 

Perché il Piccolo è un sistema. Con le sue tre sale teatrali, a partire dalla “nuova” sede (Teatro Giorgio Strehler) realizzata da Marco Zanuso (con una ipotesi di restyling della piazza sempre targato Zanuso), al suggestivo teatro Studio, dedicato a Mariangela Melato (Era l’ottocentesco Teatro Fossati, nato come spazio per gli allievi della Scuola di Teatro del Piccolo con la sua pianta circolare che invita alle sperimentazioni) a poca distanza, per finire con la sede storica del Teatro d’Europa, oggi teatro Paolo Grassi, in via Rovello, già sede della Muti durante gli anni bui della Repubblica Sociale. Ma il sistema Piccolo Teatro non finisce qui, c’è il vivaio è la Scuola di Teatro, dedicata a Luca Ronconi. Fondata nel 1987 da Strehler e diretta a lungo da Ronconi, la scuola (3 anni per 4.500 ore di lezione) è tutt’uno col teatro. Riconosciuta come eccellenza internazionale nell’ambito della formazione per l’attore, ha tra le sue peculiarità quella di coinvolgere gli allievi durante il periodo di formazione negli spettacoli di produzione del Piccolo.

 

Milano ha le proprie cattedrali della cultura ma è un’altra città, dopo Expo. “Ciò che non tutti hanno colto – avverte Carrubba – è che questa indiscutibile riaffermazione di Milano, anche dal punto di vista culturale, avviene al termine di un percorso progettuale all’interno del quale c’è anche Expo. Expo è stato un progetto voluto da un’amministrazione, contestato da gran parte della città compresa quella che poi avrebbe governato, e da un’idea che ha permesso a tutte le istituzioni di tornare ad essere competitive a livello europeo. A questo si è agganciata una vitalità promossa dall’amministrazione comunale positiva. Una progettualità però che è partita da lontano, non voglio rivendicare meriti ma la realtà è questa”. Salvatore Carrubba ha un’idea chiara nella mente “è il fatto è che la politica culturale deve rafforzarne il consumo presso chi non ne fruisce abitualmente. Non bisogna pensare però che bastino settimane o notti bianche, occorre una politica di lungo respiro fatta di progettualità, di eccellenza nelle strutture e di politiche di diffusione tra i cittadini”. Le imprese che ruolo possono giocare su questo terreno? “A Milano il rapporto è caratterizzato dal fatto che il mondo imprenditoriale tende a fare da sé, penso alle straordinarie iniziative volute da Prada o da Intesa Sanpaolo, da Trussardi e da Armani (e tanti altri). Iniziative che hanno arricchito il patrimonio cittadino. Bisogna fare in modo che il ruolo dei privati possa trovare un’unica regia col comune, senza prevaricazioni naturalmente”. E sulla frattura tra cittadini e istituzioni che sembra aver paralizzato il paese? “A Milano è meno forte che altrove, credo che i milanesi siano disposti a dimostrare che il tasso di buongoverno – e non importa il colore dell’amministrazione – possa essere un antidoto contro la sfiducia nelle istituzioni. Il sindaco a Milano è una figura di riferimento, per tutti, e questo è positivo”, conclude Carrubba.

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