Il regista teatrale Luca Ronconi in una foto del 2011 (Foto Imagoeconomica)

Provvisoria e definitiva, l'autobiografia di Luca Ronconi è uno spettacolo

Marco Archetti

Grande maestro, persona tenera, complice e traditore. È stato molto più che un regista teatrale

Può un’autobiografia, sebbene intitolata sardonicamente “Prove di autobiografia” (Feltrinelli, 385 pagine, € 25 euro), presentarsi come un testo privo di spazi vuoti, come un vangelo autentico e uniforme, come un vetro dietro cui prendono forma note luci anziché nuove ipotesi di oscurità? Potrebbe. O chissà, forse addirittura dovrebbe. Ma se è di Luca Ronconi che si sta parlando, la risposta è no. Luca Ronconi è stato il grande nemico dell’Unica Verità, un inesausto sperimentatore di possibilità occulte, un cercatore d’oro ovunque si trovasse, funambolo delle conseguenze impreviste – “spesso lavorando in teatro si cerca un risultato e se ne ottiene un altro”, raccontava.

 

Non conosceva, Luca Ronconi, altro metodo che non averlo. Non conosceva altra condizione che la ricerca della maniera ogni volta migliore per spogliarsi di ogni convinzione a priori, nel tentativo di incontrare davvero un testo e un nuovo teatro possibile oltre l’orizzonte degli eventi risaputi. È stato tutto questo, Luca Ronconi. E senza trucchi, scopertamente, con gioiosa licenza, vivo della sfrontata indecenza dei grandi geni che non temono l’incidente ma anzi, sotto sotto se lo augurano. È per questo che – inevitabilmente – un’autobiografia che ne racconta la vita e la scena, e la vita attraverso la scena, e forse più la scena della vita, sa dirci anche molto altro. Ce lo dice per lieto sbaglio d’esito, sbaglio più che prevedibile, effetto collaterale di una grande e aperta lucidità. Ce lo dice tra pudore e frontalità, tra reticenza e asserzione, ma ci parla eccome.

 

Così, pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, ecco che contano di più gli spazi vuoti che quelli pieni, il frammento apocrifo più che le virgolette aperte-chiuse, l’ombra danzante delle frasi che corrono sul piano inclinato delle conseguenze che Ronconi, per tutta la vita, ha sempre cercato: creare le condizioni perché qualcosa accadesse davvero. Il suo non era un teatro esornativo, un passatempo da fine giornata, un Martini con l’oliva. Perché Ronconi voleva altro: azzannava un testo, lo scuoiava, poi trovava la pepita in una parola omessa, non scritta o solo suggerita. Per lui il palcoscenico era poco più di uno spiraglio, non l’unico luogo possibile e deputato per decreto, perché Ronconi se ne fregava dei decreti e il suo teatro non era deputato, era infinito, e il pubblico prendeva quel che voleva, non per forza l’intero.

 

Le sue opere non lasciavano indifferenti perché “il teatro serve a chi lo fa e a chi lo vede,” diceva, “e questo è un fatto di esperienza, non di cognizione.” Il teatro era ciò che gli aveva permesso di conoscersi, ciò cui lui aveva permesso di parlare al posto suo. Era il 1953 e Ronconi – all’epoca attore del tutto sconosciuto, fino alla sera prima della sua interpretazione in “Tre quarti di luna” – già dichiarava a Edmo Fenoglio: “Non farò l’attore per tutta la vita. Non me ne frega niente”. Netto al punto che si potrebbe paradossalmente eleggere quest’affermazione come l’atto di nascita del Ronconi che abbiamo conosciuto, l’uomo che ha rivoluzionato le regole della comunicazione teatrale e ha anticipato se stesso prima di riformare tutto il resto.

 

Lo dico chiaramente: questo libro bello e pieno di fenditure non lo esaurisce, come potrebbe? Semmai lo suggerisce, offrendoci moltissimi lampi inattesi. “La mia biografia, le mie scelte personali e politiche non passano attraverso il mio teatro,” scrive Ronconi. “Mi irrita quando mi si considera il regista delle macchine. Niente di più estraneo al mio modo di lavorare, legato alla struttura del testo e alle sue valenze drammaturgiche”. “Le tre sorelle sono state il mio primo Cechov e credo anche l’ultimo. Non sento sintonia con questo autore. I suoi sono personaggi del cui destino non mi importa nulla”. “Non ricordo se dirigere un grande attore come Gassman mi abbia dato delle emozioni particolari”. “Il mio teatro non è incomprensibile, lo si capisce benissimo: è un rifiuto categorico del teatro d’intrattenimento, e allo stesso tempo la negazione altrettanto categorica di quello didascalico. È un teatro che chiede al pubblico di vivere un’esperienza”. “Mi ha sempre interessato trasportare gli spettacoli dalla scena alla televisione. Non per l’auditel, quanto per i problemi impliciti nel passaggio da un linguaggio a un altro”.

 

Ronconi che se la complica. Ronconi conscio delle strutture della realtà e delle possibilità di un testo. Ronconi mai solo Ronconi ma mille e diecimila, capace di essere al contempo “grande maestro, persona tenera e scostante, complice e traditore”, racconta Roberta Carlotto, amica e collaboratrice, co-fondatrice del centro teatrale Santa Cristina ed erede del suo archivio. Le pagine corrono, e tra un Terenzio che salva, un Middleton che ci sfida, un Orlando nato come un gioco e poi approdato alla tv, Ronconi ci parla di sé, di “tempi finiti e cose finite”, e che bellezza e che guaio, mai pagine furono così provvisorie e ancora tutte da scrivere – mai tanto terse e così definitive.

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