Foto LaPresse 

GranMilano

Gli slogan pro Gaza a Milano, e quei centomila islamici muti e dubbiosi 

Cristina Giudici

Chi nella comunità musulmana milanese tace è perché quel conflitto in Medioriente lo conoscono perché lo hanno visto o studiato e sanno bene che Hamas non rappresenta la Palestina

A guardare le piazze infiammate in Italia, a leggere i comunicati dei giovani palestinesi che senza girarci intorno scrivono che il loro riscatto è iniziato il 7 ottobre, come se quel giorno non ci fosse stato invece un pogrom di pacifisti, donne, bambini e giovani d’Israele, viene da pensare che i musulmani milanesi siano un monolite. A guardare la piazza musulmana milanese che il 28 ottobre si trasferirà a Roma per “la libertà della Palestina” – con un appello dei giovani palestinesi che inizia così: “Il 7 ottobre il popolo palestinese ha ricordato al mondo di esistere, ha dimostrato che  sono i popoli a scrivere la storia” – si vedono migliaia di giovani italiani di origini arabe che parlano “dell’occupazione coloniale sionista” e si rifiutano di condannare Hamas, anzi, perché Hamas è la resistenza. Ancora di più dopo la dura polemica sugli slogan antisemiti urlati in arabo sabato scorso al corteo pro Palestina. Gridati da ragazzi cresciuti in Italia a pane e Al Jazeera, spesso nel disagio delle periferie, che non si fanno domande, che non hanno dubbi perché “c’è un corso in genocidio nella striscia di Gaza e l’occidente è complice, punto”. 

Nel frattempo, tranne alcune eccezioni, la maggioranza dei dirigenti delle moschee milanesi tacciono perché le loro associazioni culturali sono vicine all’islam politico dei Fratelli musulmani. O se non lo sono, non vanno certo contro il comune sentire dei loro fedeli che tifano per la Palestina e poco o niente per la soluzione due popoli in due stati: la convivenza, il dialogo, la coesistenza insomma. Eppure ci si dovrebbe interrogare anche su quelli che in piazza non ci vanno, perché alla fine, fra tutti – italiani de’ sinistra, giovani e meno giovani di origini arabe che mescolano il tifo per l’autodeterminazione della Palestina al disagio delle proprie storie e identità complesse – all’ultima manifestazione a Milano erano “solo” in cinquemila. Sebbene nel capoluogo lombardo ci siano centomila musulmani, non solo arabi, che invece tacciono.

O meglio parlano, ma sottovoce o fra di loro: quel conflitto in Medioriente lo conoscono perché lo hanno visto o studiato e sanno bene che Hamas non rappresenta la Palestina. Sono studiosi, intellettuali che sono entrati, pochi ma ci sono, nelle università o lavorano per il dialogo interreligioso; ma non si espongono perché nella contrapposizione dove regna il pensiero polarizzato per non dire unico non ci vogliono entrare. Oppure persone “normali” che hanno paura a metterci la voce e la faccia. Anche se esiste un’alterità poco conosciuta, poco esplorata di chi “ragiona”, sapendo che ragionare non è un tratto dello spirito dei tempi, e quindi preferiscono farlo privatamente. Sono quelli che credono si debba trovare una soluzione per la pace e, interpellati, dicono: “Non mettetemi nei guai, non voglio finire su un giornale”, ma sanno bene che come tanti israeliani non si sentono rappresentati da Netanyahu, Hamas non è la Palestina. E sanno bene che il 7 ottobre non è cominciata una nuova Intifada, è stato un brutale attacco terroristico in stile Isis. E sapevano bene quale e quanta violenza, quante altre vittime ci sarebbero state poi. E soprattutto che quel “poi”, le conseguenze dell’attacco del 7 ottobre, non ha una data di scadenza temporale né geografica sia in Medioriente sia in Europa. Al netto della loro avversione politica verso il governo israeliano, pensano che “la questione palestinese sia stata scippata più volte e ora più che mai da un gruppo terroristico e da un islam integralista che non è il nostro”, ci hanno detto alcuni di loro che non vogliono esporsi. Sono quelli che hanno scelto di vivere in Europa perché sono fuggiti dalle dittature in cerca della democrazia, ma tutte queste cose le dicono off the record perché c’è un’altra piazza che fa più paura di tutte. Quella dei social media dove si viene triturati per molto meno.  

Di più su questi argomenti: