Claire e Franck Underwood in "House of Cards"

La resa dei conti fra uomini e donne

Annalena Benini

C’è un occidente libero ed evoluto dove i poteri dei due sessi sono nudi, o quasi, uno di fronte all’altro

"Il regno dell’uomo bianco di mezz’età è finito". Ho guardato Claire Underwood pronunciare questa frase nella nuova, ultima stagione di House of Cards, e ho ascoltato Robin Wright, che interpreta Claire, rifiutarsi di commentare la cacciata di Kevin Spacey dalla serie televisiva, in seguito all’ammissione e poi alle accuse di molestie sessuali a uomini (in un caso, nel 1996, un minorenne: Anthony Rapp aveva quattordici anni, Kevin Spacey ventisei). Netflix ha interrotto i rapporti con Kevin Spacey, e con una piroetta di sceneggiatura e di esistenza, il nuovo presidente degli Stati Uniti adesso è una donna, è lei, è Claire, vedova. Non credete a niente di quello che Frank può avervi detto negli ultimi cinque anni, dice agli elettori con quella nuova luce negli occhi. Il potere adesso è suo, al posto di Frank Underwood (e di Kevin Spacey) c’è una lapide.

 

Il regno dell’uomo bianco di mezz’età è finito: molte cose in una sola frase, molti intrecci tra l’arte e la realtà, e il trionfo della vendetta messo in scena avendo assistito al reale desiderio di vendetta, qui in occidente: la resa dei conti fra uomini e donne fondata sul sesso, sulle relazioni, sull’uso del potere. Un eccesso di giustizia conduce sempre a un eccesso di ingiustizia, scrive Simone Weil, e dentro questa giustizia, cioè la ribellione non soltanto giuridica, ma anche culturale, iniziata contro un maschio bianco di mezza età, Harvey Weinstein, produttore, molestatore e approfittatore di donne bellissime in stanze d’albergo in cambio di luci di scena (un uomo che piange quando viene rifiutato: non mi vuoi perché sono grasso), il cammino e la rabbia e anche l’entusiasmo per la possibilità di un riscatto hanno prodotto coraggio, liberazione, sollievo, ma anche ingiustizia, sommarietà e linciaggio. L’accusa nei confronti di un uomo ha liberato le accuse verso altri uomini (e donne!) che erano rimaste chiuse in gola, che addirittura fino a quel momento erano state rimosse per vergogna e per dubbio (è una violenza che lui si sia slacciato i pantaloni davanti a me, che mi abbia spinto contro il muro, che abbia chiuso la porta a chiave, che mi abbia promesso di aiutarmi? O è normale, banale, una piccola storia ignobile, o sono stata io, è colpa mia?), ma soprattutto quell’accusa specifica è diventata presto la ribellione, il disprezzo e a volte l’odio contro l’idea stessa, un’idea di genere, più larga, anche più mentale, del maschio bianco di mezz’età. Che usa il suo potere e la sua posizione per intimidire, ottenere sesso, esercitare sopraffazione e ricevere sottomissione.

   

L’idea raccontata da John Niven in “Maschio bianco etero” (Einaudi): “Tutto quello che voleva, – tutto quello che aveva mai desiderato – era di fare sempre e comunque quello che gli andava senza mai pagarne le conseguenze. Era chiedere tanto?”. La risposta sincera alla domanda: che cosa volevano gli uomini? I maschi bianchi di mezz’età, soprattutto.
E allora questo è invece il tempo di pagare le conseguenze.

  

La rabbia delle donne in questo anno di #metoo, esploso in un momento di forza, in un mondo in cui le amiche geniali arrivano sempre più in alto, ha prodotto anche la speranza di cambiare le regole della attrazione

Fino a qui, la rabbia delle donne, la rabbia delle vittime, la rabbia di un mondo fatto non solo di donne, ma anche di una maggioranza luminosa di uomini (che ricacciano pulsioni segrete in un angolo buio del cervello), che rifiuta, rinnega, non vuole mai più avere a che fare con questo sguardo maschile e con questa violenza maschile, ha prodotto prese di posizione, denunce processi, archiviazioni, dibattito culturale, cambiamento, bilanci critici e anche morbosa curiosità. Ha prodotto premi Pulitzer alle inchieste del New York Times e del New Yorker, ha fermato per quest’anno l’assegnazione del premio Nobel per la Letteratura, è arrivata fino a un quasi giudice della Corte Suprema (ma Brett Kavanaugh è stato confermato e la sua accusatrice ha ricevuto minacce di morte), ma ha prodotto anche campagne di denigrazione e cancellazione di carriere (contratti, film, trasmissioni televisive), nel tentativo di ristabilire un equilibrio e di ricostruirci una coscienza immacolata. Dentro queste conseguenze c’è anche il bisogno collettivo di autocompiacerci di un sentimento morale: la nostra rabbia, la rabbia delle donne e per le donne, la rabbia giusta. “Il mio volto potrebbe essere usato per il manifesto del movimento #metoo”, ha detto Woody Allen, che non è mai stato condannato da nessun tribunale per le molestie verso le figlie adottive, ma viene considerato spesso “un mostro”, e Amazon ha ritirato il suo film. Una coscienza immacolata, la vendetta: sei un genio, ma sei un mostro, sei l’uomo bianco di mezz’età (soprattutto lo sei stato) che ci ha raccontato chi siamo fin dove non sapevamo di essere ma contemporaneamente ci ha tenute ostaggio della sua forza, della supremazia. Ci stiamo avvicinando alla verità del sentimento, ci stiamo avvicinando al nucleo della rabbia delle donne. A poco a poco ci allontaniamo dal sesso, dal corpo, anche dal rischio di un puritanesimo che non ci riguarda davvero, e andiamo più vicino a noi stesse.

  

Al fastidio profondo, sedimentato nei secoli, verso il regno dell’uomo bianco di mezza età. Il suo regno non solo fuori di noi, al posto nostro, ma il suo regno anche dentro. Dentro di noi. L’asimmetria fra noi e loro, asimmetria come il titolo del romanzo di Lisa Hallyday (Feltrinelli) che è riuscita a raccontare il rapporto sentimentale, intellettuale e sessuale con il maschio bianco di terza età, Philip Roth, lo scrittore che più di ogni altro ha indagato quest’asimmetria come la cosa più importante e interessante del mondo: il rapporto fra un uomo e una donna, “lo squilibrio perenne”. Il ritorno nella foresta, la lotta per il dominio, il sesso.

  

Ma procediamo con ordine, e nel frattempo cerchiamo di tenere sempre distinti, separati, il giudizio morale e la giustizia. Sappiamo che la giustizia deve essere fredda, mentre il giudizio morale ci infiamma, e sappiamo che ognuno di noi ne costruirà uno diverso dentro di sé. Ricordiamoci che “stupratore” significa una cosa specifica, mostruosa. Rifiutiamo nel modo più assoluto la gogna, e ricordiamoci che il linciaggio (verbale, culturale, di massa, virtuale) è il nemico della nostra solidità. Del nostro avere ragione. La tentazione del linciaggio è nemica della nostra rabbia, perché la depotenzia, la rende vaga e  irrazionale.

    


A poco a poco ci allontaniamo dal sesso, dal corpo, e andiamo più vicino a noi stesse. Al fastidio profondo, sedimentato nei secoli, verso il regno dell’uomo bianco di mezza età. Lo “squilibrio perenne”. Così è in gioco la ridefinizione dello sguardo sui rapporti tra uomini e donne


 

La rabbia delle donne invece deve essere precisa, è costruttiva. E’ la rabbia di Elena e Lila nell’“Amica geniale” di Elena Ferrante, che si alleano perché vogliono affermare loro stesse in un mondo di maschi violenti, e che capiscono subito di poterlo fare con il cervello, con i libri, come l’ha capito la maestra Oliviero che diventa feroce contro Lila, perché Lila invece si sposerà presto e resterà “plebe” e non userà la sua rabbia e il suo talento per vincere sugli uomini. La rabbia delle donne in questo anno di #metoo, esploso in un momento di forza, in un mondo in cui le amiche geniali occupano posti importanti, arrivano sempre più in alto, e ballano sul palco “Dancing queen”, come il premier inglese Theresa May, ha prodotto però anche la speranza, forse la pretesa, di cambiare le regole dell’attrazione. Di eliminare una zona grigia e oscura che riguarda il sesso, riguarda l’istante prima di dire: sì. Riguarda anche il modo in cui si dice: sì. Riguarda zone segrete del cervello e del corpo che non sono codificabili. Riguarda due poteri, maschile e femminile, uno di fronte all’altro, nudi o quasi. Riguarda rimorsi e rabbia per quello che è stato quando sembrava impossibile fermarsi a ragionare. Riguarda soprattutto le ragazze, oggi, che cercano risposte a tormenti e a possibilità e a insicurezze diverse dalle nostre. Queste ragazze ci hanno visto arrabbiate, a volte, come ha scritto Amanda Petrusich sul New Yorker, “incapacitate dalla nostra stessa furia”. Dal dolore per il dolore e per il senso di umiliazione che a un tratto è esploso, tornato alla memoria, evidentemente mai placato dalla vita. Ci siamo sentite in trappola, anche, convinte che il mondo ci chiedesse di rispondere in modo unificato e coerente a tutte le notizie di abuso. Di nuovo senza la possibilità di ragionare. Che tipo di giustizia avremmo voluto? E che cosa, davvero, vorremmo vendicare?

  

Se ci allontaniamo per un attimo dal corpo e dalle questioni specifiche, gravi, anche gravissime, di molestie sessuali, se andiamo più verso il senso di ingiustizia prodotto dal pensiero, allora ecco che negli eccessi di questa giustizia morale istintiva, nelle conseguenze positive e negative del potere rivoluzionario della rabbia delle donne troviamo anche la rabbia per il solo fatto che quell’uomo ha un potere che noi donne non abbiamo. La rabbia perché lui sta al mondo in un modo diverso dal nostro. La rabbia perché se io arrivo più in alto, ci sarà una schiera di uomini (ma purtroppo, purtroppo, anche una piccola folla di donne che si dichiarano femministe e solidali) che dirà: perché è l’amante di quello, perché è la moglie di quell’altro, perché è protetta da questo. E non c’entra, con l’offesa, l’insinuazione sessuale, c’entra l’istinto profondo che lega la forza di una donna a quella di un uomo.

   

Siamo soltanto quello che abbiamo subìto noi e che hanno subìto le altre? In questo modo, l’asimmetria, la sproporzione, sono ancora più evidenti. Il porco e noi: è uno scenario desolante

L’asimmetria, eccola. Rispetto a questo o quell’uomo bianco di mezza età, che allora diventa quasi legittimo detestare, per quanta influenza e veleno può portare, anche senza volontà, ma solo con la sua esistenza e la sua storia di maschio e il suo modo sfrontato di stare al mondo, nelle nostre vite. La violenza risiede nella sua stessa esistenza. La rabbia nasce da qui. Anche l’amore nasce da qui. A chi le ha chiesto quale fosse stato il più grande successo della sua vita, Simone De Beauvoir ha risposto, e più avanti confermato: Sartre. “Ho la tentazione di preferire la sua esistenza alla mia”, scriveva nell’“Età forte”, nel pieno della sua stessa forza. Simone De Beauvoir diceva quello che Sartre non avrebbe mai nemmeno pensato, lo diceva con piena consapevolezza e orgoglio, dentro un’unione fortissima, straordinaria e totalizzante, ma in questa verità femminile, consolidata nei millenni, si nasconde, cresce, si placa, poi esplode di nuovo, la rabbia. E allora la vendetta di questo anno tumultuoso riguarda, più precisamente, il regno del maschio bianco di mezz’età (ed è interessante che questa frase fondamentale: il regno dell’uomo bianco di mezz’età è finito, sia stata creata da un uomo, lo scrittore Michael Dobbs, che ha lavorato con Margaret Thatcher, e che ha visto da vicino la rabbia e la fatica di una donna, la spietatezza necessaria per farsi largo in un mondo di uomini).

  

Le donne, dentro questa rabbia che le ha scosse, che ci ha scosse in molti modi diversi, e che anche ci ha fatto segretamente esultare per la paura che leggiamo spesso negli occhi degli uomini (negli ascensori, negli uffici, alle feste: sguardo basso, nessuna allegria, la vergogna preventiva di sentirsi in pericolo di fronte al sospetto femminile di massa: non fai più lo scemo adesso?), hanno creato altri slogan: in Francia, #balancetonporc, denuncia il tuo porco. Che è una deriva, non solo perché è feroce, è violenta, ma perché indirizza la rabbia verso una sola posizione, una sola possibilità: quella della vittima. Il tuo porco, il tuo uomo: siamo di nuovo legate a un uomo, siamo identificate soltanto dalla presenza nella nostra vita di un porco? Siamo soltanto quel che abbiamo subìto noi, e anche quello che hanno subito le altre? In questo modo, l’asimmetria, la sproporzione, sono ancora più evidenti. Il porco e noi: è uno scenario desolante, non è qui che la rabbia delle donne voleva arrivare, a un uomo spaventato in ascensore. Non è così che imporremo la nostra forza. La domanda è anche questa: la vogliamo, questa forza? C’è in gioco, in questo nostro occidente libero, evoluto, e a parole consapevole della grandezza femminile, la ridefinizione dello sguardo sui rapporti tra uomini e donne. Rapporti non soltanto attraversati dal sesso, ma rapporti esistenziali, professionali, di reciproco rispetto e considerazione. Rapporti di uguaglianza fra esseri umani che uguali non saranno mai. Edna O’Brien, la grande scrittrice irlandese, ha detto molti anni fa in un’intervista a Philip Roth che “l’unica vera sicurezza sarebbe volgere le spalle agli uomini, staccarsene, ma questa sarebbe una piccola morte, almeno per quanto mi riguarda”. Se fosse realmente l’unica vera sicurezza, volgere le spalle agli uomini, allora è meglio vivere in questo caos, e lottare per il regno. Se quello dell’uomo bianco di mezz’età è finito, se davvero adesso tocca a noi, cerchiamo almeno di lasciare un buon ricordo.

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  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.