Federico Pizzarotti, sindaco di Parma: “Abbiamo bisogno di un grande incontro nazionale, senza palchi, senza battute, senza spettacoli, senza urla e senza vaffanculi”.

A tu per tu

Il Pizzarotti Show

Salvatore Merlo

“Purtroppo il M5s sta diventando sempre più un movimento di sole urla. Tutti piccoli imitatori di Beppe Grillo”. E ancora: “Roma? Lì la cosa è partita male da subito. Dovete sapere che quella è una guerra interna, è una faida tra capetti”. Contro il fanatismo a 5 stelle. Contro i leader che si trasformano in imam. Chiacchierata con il sindaco di Parma, grillino eretico - di Salvatore Merlo

Parma. Lo sguardo fisso, perduto che sembra mettere a fuoco i suoi compagni del movimento 5 stelle con difficoltà, da molto lontano, come fossero vapori, ombre evanescenti. “Di Battista, mi chiedi… Dibba è il più sgamato di tutti. Non so se abbia mai presentato davvero una proposta di legge. Ma gli piace la televisione. Si è tenuto fuori dai giochi di potere. E per questo, adesso, con tutto il caos romano, è l’unico che non si è bruciato. Significa che ci sa fare. Lui è come il front man di un gruppo rock. Magari non sa suonare né cantare, ma è fighissimo”. Poi c’è Luigi Di Maio, il Cinque stelle che non t’aspetti, il leader designato dal destino e dagli eventi, quello rassicurante, apparentemente normale. “Eh, Di Maio… Grande capacità di movimento, accompagnato da ambizioni classiche e relazioni di salotto, piccole correnti in mezza Italia, seguito personale. Ma non si è mosso bene, in realtà: vedi Gela, Quarto, Rimini, Ravenna e adesso anche Roma. Tutti i comuni dove lui è intervenuto. Gli è esploso tutto in faccia”. Troppa ambizione? “Questi hanno sempre attaccato l’asino dove vuole il padrone”, dice con l’aria e il fatalismo di chi sa che l’effetto della scalciata dell’asino, cioè di Beppe Grillo, quando arriva (“e ormai è arrivato”), può essere dolorosamente indimenticabile. Adesso Di Maio si eclissa, Di Battista sorge, almeno così pare. “Ma Di Battista, ve lo assicuro, non vuole responsabilità. Gli piacciono altre cose”. Ed è chiaro che a lui non fa simpatia né l’uno né l’altro dei due dioscuri del grillismo. E infatti mentre ne parla, pur sorridendo, con il suo tono rapidissimo e giovanile, sembra che il solo sentirli nominare gli smuova nell’animo un sedimento di fastidio.

 

“Il M5s sta diventando sempre più un movimento di sole urla. Tutti piccoli imitatori di Grillo”. E perché prima cos’era? “Grillo urlava, faceva da megafono. Ma in giro, nelle città, noi cinquestelle eravamo quelli più preparati, quelli che si studiavano le cose, che facevano le pulci ai partiti di governo. Io me lo ricordo. Eravamo rompi balle, pignoli, ma corretti. Dicevamo: ‘votiamo le delibere che entrano nel nostro programma, chiunque le presenti’. Adesso invece diciamo questo: ‘Votiamo no a tutto perché lo presentano gli altri che fanno schifo e sono corrotti’. E’ una cosa stupida, oltre che ipocrita. Io li guardo in televisione, e certe volte rimango basito. La metà del tempo non raccontano cosa fanno in Parlamento, non raccontano del loro lavoro, delle cose che magari in effetti riescono a fare. Ma dicono, urlando, cosa ‘non’ fanno gli altri. Ecco, non basta indicare i problemi. La politica è ‘fare’. Sennò diventi come Salvini. Lo sai qual è il metodo di Salvini?”. Ruttini? “Quasi. Lui si mette là, e srotola una specie di elenco di problemi: e ci sono gli immigrati, e c’è l’Europa cattiva e stupida, e ci sono le banche che comandano… Facile. Facilissimo. Ma a che serve? All’inizio il Movimento 5 stelle non era così”. Insomma… “Lo dico sul serio”.

 

E forse Federico Pizzarotti, quarantatré anni, sindaco di Parma, scarpe da ginnastica e camicia aperta – l’impressione, entrando nel suo studio sontuoso in Municipio è: ma che ci fa questo ragazzino seduto al posto del sindaco? Ah no. Ma è il sindaco! – un po’ esagera nella sua versione idilliaca degli inizi, degli anni d’oro. “Sono entrato nel Movimento da subito. Io c’ero prima di tutti”, ricorda. Ma quelli che erano con lui, a quei tempi, nel 2009 e anche prima, adesso sono stati tutti espulsi: Favia, Tavolazzi… “Solo Crimi è rimasto… Ma non so se sia un bene”, dice con un sorriso. Favia era un amico. “Era bravissimo. Anche se gli rimprovero di non essere stato limpido alla fine. Cosa che ha reso facile la sua espulsione”. E Tavolazzi, invece? “Tavolazzi, negli incontri che si facevano tra i primi eletti del Movimento, veniva presentato da Grillo come il miglior city manager d’Italia. Casaleggio gli faceva tenere i corsi a quelli che si candidavano e venivano eletti nei consigli comunali. E’ stato eliminato perché era bravo, e perché aggregava consensi”. Anche Di Battista e Di Maio aggregano consensi. “Sì, ma loro ubbidiscono sempre. Tavolazzi, come Favia, era uno capace di uscire dagli schemi precompilati della Casaleggio Associati”.

 

Gianroberto Casaleggio era un autoritario? “Io Casaleggio l’ho conosciuto e frequentato a Milano. La prima volta nella sede della Casaleggio Associati, ti chiamavano e ti facevano delle lezioni per spiegarti anche come si parla. Secondo me Casaleggio ha avuto un grande merito, ha costruito il Movimento, ha intuito che c’era in Italia uno spazio politico, un bisogno di partecipazione e di pulizia che cercava forme di espressione. E poi lui sapeva tenerlo saldo il Movimento, sapeva frenare le stupidaggini eccessive. Cosa che Grillo non sa fare. E anche per questo quando c’era Casaleggio non si era mai occupato di nulla che non fosse vociare su da un palco”. E suo figlio Davide? “L’ho visto due volte in tutto. Diciamo che, come suo padre, non è un tipo espansivo”. Casaleggio diceva tante cose bislacche. “Il guaio è che molte di queste cose sono diventate dogmi incontestabili. Tavole della fede per imporre la volontà di pochi su tutto il Movimento”. E in qualche modo Pizzarotti avverte con terrore l’immortale brontolio del conformismo rivoluzionario. “Oggi questi prendono le parole di Casaleggio e le usano, le interpretano, come fanno certi imam furbissimi ed estremisti con il Corano. Ti dicono: ‘Guarda c’è scritto che non ti puoi tagliare la barba’. E ti obbligano a tenerla”.

 

In un angolo della grande sala affrescata, circoscritta da quadri anneriti dai secoli che ritraggono gli evangelisti, spicca un grosso austero comò sormontato da una miriade di targhe, placche, ottoni, argenti, ori: premio “comuni virtuosi”, premio “eccellenza energia sostenibile”, premio “mensa verde”, premio “Legambiente gestione rifiuti urbani”, premio “tariffa puntuale”, premio “primo capoluogo a superare il 65 per cento nella raccolta differenziata”, premio “ecosistema urbano”, premio “città connessa”… E pensare che, poco dopo la sua elezione a sindaco, lo stavano per espellere dal Movimento. “Volevano che buttassi giù l’inceneritore, che era in costruzione a Parma, voluto da un’altra giunta. Non si poteva mica fare”, dice con quel suo tono amichevole, sciolto, un tono di complicità, un modo rapido e frammentario di accennare agli eventi, di giudicare le persone e le cose. “Fare politica, amministrare non significa offrire un occultismo composto di pernacchie e vaffanculi, democrazia diretta via internet e soluzioni semplici come un prelievo al bancomat”, aggiunge, mentre l’occhio di chi lo ascolta si poggia sulla foto del presidente della Repubblica, su Sergio Mattarella, che sta lì in bella evidenza, e non con l’aria di essere un dettaglio dovuto. “Oggi la percentuale di raccolta differenziata a Parma supera il 70 per cento”, dice Pizzarotti. “Questo risultato non lo abbiamo ottenuto a colpi di fanatismo ideologico. Quando sono diventato sindaco, il debito della città ammontava a 870 milioni di euro. L’anno prossimo saremo al 50 per cento di questa cifra. Dimezzare il debito è stata un’operazione tecnicamente difficilissima, ci siamo circondati di competenze professionali all’altezza del compito. Non si risolvono i problemi di un’amministrazione a colpi di battute a effetto o di fanatismi, ortodossie ideologiche, piccole fantasie e grosse sparate”. E così anche Pizzarotti, come altri sindaci del Movimento cinque stelle, sembra dimostrare che sempre la realtà sboccia portentosa e puntuale assieme alle batoste, ai guai, ai problemi pratici, e spinge via come fumo velleità e stranezze, istanze peracottare, inconcludenza e retorica. Liberato l’animo dalle catene dell’illusione, la sferza della realtà comincia a far sprizzare sangue.

 

Virginia Raggi, a Roma, affoga nelle contraddizioni logiche del Movimento, gli si dice. E lui: “Lì la cosa è partita male da subito. Dovete sapere che quella è una guerra interna, è una faida tra capetti. Li conosco abbastanza bene, un po’ tutti. All’inizio il candidato sindaco doveva essere Marcello De Vito, che aveva più seguito e sostegno. Ma pare che la Raggi piacesse a Di Maio, il quale la riteneva più telegenica, e che temeva fortemente un insuccesso a Roma, perché capiva che le sue personali ambizioni da leader dipendevano (e dipendono) da quello che succede a Roma. Così di fatto la Raggi è stata imposta. Ma il gruppo dei cinquestelle romano è rimasto con De Vito. E persino tutto il mini direttorio, ora abbattuto da Grillo, era formato da gente vicina a De Vito. Come Roberta Lombardi”. E davvero capire quali siano gli orizzonti contrapposti, quali le categorie che allontanano De Vito e Lombardi da Virginia Raggi e Di Maio è come avvicinarsi alle origini misteriose d’una nebulosa cosmica. “Bisogna forse affidarsi alle categorie dell’introspezione psicologica”, dice Pizzarotti, cioè l’invidia, l’ambizione, la competizione. “A malapena si salutano, ciascuno lavora per sé da frazione scissa”. Ed è insomma per questo che la sindaca Raggi si è poi circondata di un ambiente molto estraneo al Movimento. Ma Paola Muraro, l’assessora indagata? “Io so solo una cosa, e cioè che la signora Muraro era presidente dell’associazione degli ‘incenitoristi’ italiani. Quando seppi che la nominavano assessore, chiamai Stefano Vignaroli, membro del direttorio, e gli segnalai che mi sembrava una contraddizione. Gli dissi di stare attenti”. E lui? “E lui, fedele alla regola della cristallina trasparenza e della simpatia mi rispose per sms così: ‘Va bene così’”.

 

E sulle contraddizioni, sull’uso disinvolto (e opportunistico) delle regole che si trovano all’interno del Movimento, Pizzarotti è in grado di srotolare un papiro chilometrico. “A cominciare dal fatto che hanno provato a espellermi perché ero indagato e ora difendono la Muraro, che è indagata”. Ma Pizzarotti, da indagato, non lo comunicò ai ragazzi del movimento. “L’avviso di garanzia non esiste perché possa essere pubblicato dai giornali, è un atto a garanzia dell’imputato”. E se uno iè ndagato, è giusto che venga cacciato? “Dipende. In generale ci vuole buon senso, come tutte le cose. Quello che contesto io è l’ipocrisia, il doppio pesismo, quel costante tentativo di usare la tavola delle leggi di Casaleggio per imporre la volontà di pochi sul Movimento”. E adesso che succede? “Roma è un punto di svolta. Come lo sono state le ultime elezioni. Non so cosa succederà, ma so cosa vorrei”. E cosa? “Un grande incontro nazionale, senza palchi, senza battute, senza spettacoli, senza urla e senza vaffanculi. Una grande sala conferenze, un piccolo palco con un leggio dove si possa parlare tra noi di politica e di futuro”. Un congresso insomma. “Abbiamo bisogno di struttura, di un’organizzazione vera, concreta, reale”. E internet? La democrazia digitale? “La delega serve”. E’ eterodossia grave questa. “Forse. Ma forse è l’unica speranza”.

 

La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015), Marco Carrai (13 febbraio 2015), Ettore Bernabei (17 marzo 2015), Umberto Bossi (5 aprile 2015), Paolo Del Debbio (8 settembre 2015), Simona Ercolani (2 ottobre 2015), Raffaele Cantone (1 febbraio) e Milo Manara (18 febbraio), Francesco Paolo Tronca (26 febbraio 2016), Raffaele La Capria (11 marzo 2016), Carlo De Benedetti (4 giugno).

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.