Il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede (foto LaPresse)

La televendita dello stato di diritto

Salvatore Merlo

I grillini gettano la maschera e spiegano perché di fronte a una giustizia che non va non bisogna lavorare per aggiustarla ma occorre impegnarsi per sfasciarla di più. Tra Bonafede, Taverna e Raggi. Mattinata choc passata a un convegno dei 5 stelle

Alle 23.48 del 29 giugno 2009 un treno carico di Gpl deraglia alla stazione di Viareggio, la cisterna diventa una bomba, un intero quartiere brucia assieme a trentadue persone. Trentadue morti. Quando Marco Piagentini, che porta addosso i segni delle gravissime ustioni, racconta la notte in cui morirono sua moglie Stefania, quarant’anni, e i suoi figli di due e quattro anni, Lorenzo e Luca, ecco che il silenzio e la commozione colpiscono come un pugno nello stomaco, seguito da una scarica inaccettabile: “Dopo undici anni di processo, tre capi d’imputazione sono finiti in prescrizione. Un altro capo d’imputazione, l’omicidio colposo, rischia di andare in prescrizione anche quello. Ditemi voi se potrò mai spiegare al mio unico figlio sopravvissuto che sua madre e i suoi fratellini sono morti per niente”.

 

Come ben si vede, la faccenda è terribilmente seria. Riguarda la barbarie del meccanismo processuale che si trascina troppo a lungo, oltre ogni umana sopportazione. Un processo che dopo undici anni non è ancora finito non è degno di un paese che si definisca civile. Faccenda assai seria, si diceva. Per questo ieri mattina, in Senato, nella biblioteca della sala Koch, lo spettacolo che è andato in scena per iniziativa del Movimento cinque stelle, con Alfonso Bonafede, Virginia Raggi e Paola Taverna, impegnati ciascuno a vendere qualcosa a un pubblico di giovani studenti, militanti grillini, telecamere e dirette Facebook, lasciava a tratti persino sgomenti. Per il tono svagato, per lo scopo spudoratamente propagandistico di un’iniziativa intitolata “Uniti contro la corruzione. Conferenza/evento a un anno dall’entrata della legge ‘Spazzacorrotti’”.

 

Il ministro Bonafede prende la parola sul finale, subito dopo l’intervento potentissimo di Marco Piagentini, quando l’aria è pesante e la commozione insopprimibile. E ovviamente cosa fa Bonafede? Non offre le buone ragioni di chi ha lavorato a rendere i processi più rapidi, perché in due anni il ministro non ha fatto nulla di tutto questo. Ma difende la sua contestatissima legge che sospende la prescrizione, che è la ragione per la quale la scaletta del “convegno” era stata progettata: creare il clima emotivamente più adatto alle cose che il ministro intendeva dire per difendersi in un momento di difficoltà pubblica.

 

“C’è il diritto dei cittadini a rivendicare una risposta dello stato”, dice allora Bonafede. “Perché altrimenti la storia che ha raccontato Marco Piagentini si ripeterà”, aggiunge. E insomma questo ministro dall’aria inconsapevole, eppure furbetta, scaglia Viareggio nel frullatore della polemica politica. Viareggio diventa il suo scudo, contro Matteo Renzi, contro il Pd che vuole modificare la sua legge bislacca sulla prescrizione, contro l’intero mondo del diritto, quei penalisti e quei magistrati, quei professori di procedura penale che gli tirano le orecchie da asino. “Ringrazio i familiari delle vittime che ho incontrato in questi anni”, insiste lui. “Ho promesso loro che le cose sarebbero cambiate. E loro mi hanno dato la forza di tenere il punto”, aggiunge. Quindi mescola ogni cosa, in un minestrone indecente.

 

Tutti sanno che la sospensione della prescrizione non accelera i processi, ma ha l’effetto opposto. Bloccare la prescrizione equivale a dire: la giustizia non funziona, invece di tentare di aggiustarla la sfasciamo del tutto. E parlando, Bonafede mette insieme la prescrizione con l’altra sua legge contestata, la “Spazzacorrotti”, la cui retroattività sanzionata dalla Consulta non era solo un’interpretazione dei magistrati – come racconta lui – ma un punto qualificante di cui il M5s si vantava, addirittura spiegando con un famoso e violentissimo post sul Blog delle stelle che grazie alla Spazzacorrotti il già condannato Roberto Formigoni sarebbe finito in prigione e non ai domiciliari.

 

Ma non c’è contraddittorio in questo “convegno”. Non c’è un dibattito. Si recita a soggetto. E’ l’esemplificazione di cosa significhi piegare la tecnica e la politica, la cronaca e la giustizia, alle urgenze della comunicazione. Così, concludendo lo spot, Bonafede si rivolge alla classe di studenti del Liceo Pascal di Roma che lo ascolta – a proposito: perché ci sono degli studenti? “Il preside è un amico del senatore grillino Sergio Puglia” – e paternalista, rivolto a questi ragazzi che hanno sorbito con chissà quanta consapevolezza due ore di propaganda purissima e sbrigliata: “Vi auguro di portare avanti i vostri sogni in un paese che davvero combatte contro la corruzione, si tratta di difendere la vostra libertà di giovani”. Anche gli studenti, come elementi di una sceneggiatura.

 

Trasformano ogni cosa in una televendita, i 5 stelle. Dunque come zampettavano sulla tragedia dell’emarginazione – “abbiamo abolito la povertà” – così banchettano sul dramma e la sofferenza di chi chiede giustizia e teme di non riceverla dallo stato. E gli si permette pure di propinare questa sbobba a degli studenti di quarta liceo. Di usarli, attirandoli forse con la presenza di Gian Carlo Caselli e Antonio Di Pietro, specchietti per le allodole. Al Senato della Repubblica. Uno spettacolo da piazzisti, un reality dove questa classe dirigente di ex emarginati fattisi ministri, sindaci, e vicepresidenti del Senato in realtà ha tentato solo di spacciare e promuovere le proprie ambizioni. E infatti, come Bonafede doveva rilanciare se stesso e regolare i conti nella maggioranza, così Virginia Raggi era lì per vendere il suo lirico impegno anticorruzione (“sono lieta di annunciarvi che abbatteremo presto un altro villino del clan Casamonica”) e Paola Taverna era lì per offrirsi nei panni improbabili di donna di stato e possibile leader del M5s. Addirittura qualcuno le aveva infarcito il discorso di frasi in latino. Alla Taverna. Persino Bonafede era più credibile.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.