Matteo Renzi e Giusepe Conte (foto LaPresse)

Il tatticismo è come un vairus

Claudio Cerasa

Regge o non regge? Renzi non combatte solo contro i tempi lunghi della giustizia ma anche contro i tempi lunghi della stagione contiana. La legislatura terrà ma il punto è un altro: cambiare agenda è più importante di cambiare premier. Spunti

La domanda politica a cui oggi nessuno sa rispondere è una e soltanto una e coincide con un quesito che più lineare non si può: ma insomma, diciamocela tutta, questo governo cade o non cade? La risposta a questa domanda, per quanto ci riguarda, è che questo governo non è detto che duri, almeno non in queste forme, ma che qualsiasi cosa accada, nonostante le speranze di Matteo Salvini, all’orizzonte un voto non si vede e in un modo o in un altro la maggioranza magnificamente trasformista che sostiene Giuseppe Conte troverà un modo per andare avanti, o allargandosi (tesi di Matteo Renzi) o rimpicciolendosi rinunciando a Italia Viva (tesi del Nazareno). Si potrebbe pensare che al centro del dibattito politico ci sia oggi soltanto il tema della prescrizione e della battaglia di Matteo Renzi contro i tempi infiniti del processo.

 

Ma dal momento in cui il governo ha deciso di congelare di fatto il lodo sulla prescrizione (che Renzi chiedeva di congelare) inserendolo in prospettiva (il testo ancora non c’è) all’interno del pacchetto relativo alla riforma del processo penale (riforma approvata tramite ddl due sere fa a Palazzo Chigi) che verrà discusso nei prossimi mesi in Parlamento, si può dire senza possibilità di errore che quella di Renzi è diventata a tutti gli effetti una guerra non contro i tempi lunghi della giustizia ma contro i tempi lunghi della stagione contiana. Che cosa vuole Renzi? A chi glielo chiede, l’ex premier dice, più o meno esplicitamente, questo: dimostrare al Quirinale che vi è una maggioranza più larga di quella attuale da mettere in campo in questa legislatura. Per provare ad arrivare a questo obiettivo, Renzi dice di essere disposto anche a uscire dalla maggioranza – è più facile che questo accada tra qualche settimana, magari discutendo del reddito di cittadinanza piuttosto che della prescrizione – favorendo la nascita di un Conte Ter con meno Italia viva e più, ormai li chiamano così anche i grillini, “responsabili di Forza Italia”. “E un governo così”, dice Renzi, “durerebbe tre mesi”.

 

La tesi del governo senza Renzi è una tesi a cui il Pd non crede ma in ogni caso chi manovra i numeri all’interno del Partito democratico è certo di due cose. Primo: qualsiasi cosa farà Renzi, non la farà per andare a votare, perché andare a votare oggi, senza aver fatto neppure la nuova legge elettorale, significherebbe per Renzi portare alla precoce estinzione il suo partito. Secondo: quale che sia l’intenzione di Renzi, è difficile credere alla sua volontà di rompere l’equilibrio del governo sapendo che i numeri per far andare avanti l’esecutivo potrebbero esserci senza di lui, e immaginarlo lì all’opposizione a contendere lo spazio di lotta a Salvini è una scena difficile da credere. Nessuno sa come, ma per quanto il governo possa essere a rischio, la legislatura al momento non lo è, e anche al Quirinale nessuno realisticamente pensa che le tensioni di questi giorni possano essere identificate come qualcosa di diverso da un bluff.

 

Ma una volta esaurita la parte analitica della nostra piccola ricostruzione vale forse la pena chiedersi se sia possibile oppure no individuare un briciolo di senso in questa spassosa battaglia fra tatticismi contrapposti. E la risposta seria ma non seriosa è che il tatticismo è uno sballo assoluto, che le geometrie del trasformismo sono spesso inebrianti, che la sovranità del Parlamento riesce a inebriare sempre più del sovranismo populista ma che se portato alle estreme conseguenze il tatticismo può diventare un virus, o un vairus come direbbe Luigi Di Maio, e non sembra essere una buona idea inseguire l’agenda Tafazzi quando ci sarebbero in teoria alcune condizioni per rispolverare semmai l’agenda Giavazzi. Il tatticismo può essere letale perché era chiaro fin dall’inizio di questa esperienza che il governo in carica non sarebbe mai stato quello dei sogni ma era anche chiaro dall’inizio di questa esperienza che il governo non dei sogni nasceva con una maggioranza sbagliata capace per ragioni astrali di fare potenzialmente una cosa giusta: cercare un’alternativa all’Italia del sovranismo nazionalpopulista.

 

Cinque mesi dopo, il leader che si è auto estromesso dal governo via Papeete appare spesso come un pugile suonato, continua a prendere schiaffi su schiaffi ed è arrivato persino a trovarsi nelle condizioni di dover chiedere ai leghisti più presentabili, come Giancarlo Giorgetti, di esporsi più di prima, di provare a nascondere i leghisti impresentabili e di far capire a chi deve capire che la Lega è cambiata: non vuole sfasciare l’Europa, ha detto ieri Giorgetti al Corriere della Sera, non vuole uscire dall’euro, non vuole essere il braccio politico né della Le Pen né dell’AfD. Ma cinque mesi dopo, ed ecco il punto, il dato forse più interessante che vive all’interno degli equilibri della maggioranza è che il populismo a essere finito in un angolo non è solo quello telecomandato da Salvini (tanto forte elettoralmente quanto debole oggi politicamente) ma è prima di tutto quello guidato da ciò che resta del grillismo (tanto forte dal punto di vista parlamentare quanto debole dal punto di vista elettorale).

 

E arrivati a questo punto del nostro ragionamento, i professionisti del tatticismo dovrebbero riflettere su un punto non secondario: di fronte alla crisi del grillismo è più importante provare a cambiare presidente del Consiglio o provare a cambiare l’agenda? Provare a cambiare il premier è una mossa spericolata che potrebbe anche riuscire (e su questo vale la pena studiare anche il lodo Giorgetti di cui parliamo a pagina tre) ma è una mossa che avrebbe l’effetto di destabilizzare una maggioranza che potrebbe essere stabilizzata in un modo diverso, sfruttando per esempio la debolezza dei grillini, e la loro inevitabile disponibilità ad accettare tutto o quasi pur di non tornare alle elezioni di cittadinanza, per provare a fare quello di cui l’Italia ha bisogno: tentare disperatamente di crescere facendo ingoiare al M5s tutto quello che c’è da ingoiare sui nuovi provvedimenti. Matteo Renzi, principe della tattica, ha dimostrato negli ultimi mesi di avere in mano il pallino della legislatura. Ma il tatticismo, così come la competizione, se usato in modo spregiudicato può diventare come un vairus e immaginare due Matteo al posto di uno al Papeete è una scena che forse meriterebbe di essere evitata.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.