Il lungo male delle carceri italiane. La relazione al Parlamento del Garante dei detenuti

I sintomi sono sempre gli stessi: affollamento, poche misure alternative, aumento dei suicidi. E sui migranti trattenuti sulle navi Mauro Palma dice che “la privazione della libertà non può essere un messaggio politico”

Enrico Cicchetti

Roma. Nella sua relazione annuale al Parlamento, il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma torna a fotografare la situazione delle carceri e dei luoghi di privazione della libertà in Italia. Una realtà che presenta ancora gli stessi sintomi di una malattia di lungo corso, diagnosticata e discussa da anni ma che ogni volta sembra incancrenire: l'affollamento carcerario, la mancanza di accesso alle misure alternative, l'aumento dei suicidi. Il Garante ha visitato cento diversi luoghi fra il 2018 e l’inizio del 2019: istituti di pena per minori e per adulti, centri per migranti, Rems (le strutture sanitarie che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari), i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, ha ispezionato anche la nave della Guardia costiera Diciotti e ha monitorato trentaquattro voli di rimpatrio forzato. Erano presenti alla relazione il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il guardasigilli Alfonso Bonafede, il premier Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico. Nessun partecipante di ala leghista.

 

Qui il testo della relazione

 

L'affollamento carcerario

È sempre lo stesso paradosso italiano: diminuiscono i reati – anche quelli che dovrebbero creare maggiore allarme (stupri, furti e rapine, omicidi) – ma aumentano i detenuti. E c'è di più. Fino al 26 marzo 2019 su 46.904 posti regolamentari disponibili nei 191 istituti di pena del paese erano presenti 60.512 persone: c'erano insomma nelle galere italiane 9.998 detenuti in più, con un sovraffollamento del 120 per cento. Al 31 dicembre 2017 i detenuti erano 57.608 contro i 59.655 alla stessa data del 2018. Una crescita, in un solo anno, di oltre duemila detenuti. Eppure l'aumento non è dovuto a un maggiore ingresso di persone in carcere – che rispetto all’anno precedente sono diminuite di 887 unità – ma a 1.160 dimissioni dal carcere in meno. In altre parole, in carcere si entra di meno ma si esce anche di meno. Perché? Molto probabilmente perché si utilizzano poco le misure alternative al carcere, secondo il Garante. Ci sono 5.158 persone con pena inferiore a un anno o compresa tra uno e due anni che potrebbero usufruirne, ma che rimangono all’interno degli istituti. Per altro, dalle statistiche di cui il ministero della Giustizia ha tenuto conto nell'elaborazione della riforma dell’ordinamento penitenziario emerge che per chi sconta la pena in carcere il tasso di recidiva è del 60,4 per cento. Invece, per coloro che hanno fruito di misure alternative alla detenzione, la recidiva scende al 19 per cento, ridotto all'1 per cento per quelli che sono stati inseriti nel circuito produttivo. “Sono anche le condizioni di precarietà sociale dei detenuti a pesare sul mancato ricorso alle misure alternative”, spiega al Foglio Claudio Paterniti Martello, ricercatore dell'associazione Antigone. “Se non hai una casa né la possibilità di accesso al lavoro, se non padroneggi i codici del sistema né hai un avvocato di fiducia è più difficile che tu sappia che puoi chiedere una misura alternativa. Ed è più probabile che la domanda venga rigettata perché fatta male. In uno stato liberale e garantista devono per l'appunto essere solide le garanzie che consentono il beneficio effettivo dei diritti, come il diritto a una pena rispettosa della dignità e volta al reinserimento nella società, secondo quanto previsto dalla nostra carta costituzionale”. E secondo la relazione del Garante, in Italia queste sono ancora troppo deboli.

  

Suicidi in carcere

Nel 2018 i casi di suicidio sono stati 64: un numero che ha segnato un picco di crescita rispetto all’anno precedente (50 nel 2017) e che ha raggiunto un livello che non si riscontrava dal 2011. Nei primi tre mesi del 2019, 10 persone si sono tolte la vita in carcere, circa una a settimana. Trentasette persone, la maggior parte, non avevano ancora una pena definitiva: tra questi 22 erano ancora in attesa del primo giudizio. L’età media era di 37 anni e il più giovane ne aveva solo 18. Ancora di più colpisce il picco di suicidi in prossimità del fine pena: 17 persone sarebbero uscite in meno di 2 anni, 3 entro l’anno.

   

Migranti

Navi

Il caso della Diciotti, sul quale il vicepremier Matteo Salvini ha rischiato il processo. Poi la vicenda della Sea Watch, tenuta per una settimana a un miglio dalla costa di Siracusa con 47 migranti a bordo. E ancora, pochi giorni fa, quello della Mare Jonio, la nave fermata a un miglio da Lampedusa. Il Garante si è occupato anche del tema, attualissimo e fluido, dei migranti trattenuti sulle navi (battenti bandiera italiana o straniera) sia in acque territoriali italiane sia in acque internazionali. “È dovere del Garante nazionale”, si legge nella relazione, “esercitare il proprio controllo non solo sui luoghi in cui la privazione della libertà è formalmente e giuridicamente definita, quali per esempio i Centri per il rimpatrio, ma anche sulle situazioni in cui essa si verifica de facto”. L'azione del Garante non ha solo un profilo umanitario e uno di diritto, ma serve anche per “non esporre lo stato al rischio di doversi successivamente difendere” di fronte alla giustizia internazionale “rispetto agli obblighi convenzionali assunti [...] senza per questo intervenire sulle scelte politiche che ogni governo della Repubblica ha diritto di definire”. 

    

Il Garante ricorda del resto, che “ogni nave italiana in qualsiasi acqua si trovi rappresenta un’estensione del territorio nazionale e le persone che essa, seppure temporaneamente, ospita a bordo devono godere di tutte le garanzie che il nostro sistema prevede; lo stesso per le navi straniere quando sono nella acque del nostro paese”. Palma spiega anche come siano previsti luoghi di trattenimento delle persone “non tassativamente definiti, non riconducibili a una mappa che ne permetta l’individuazione e la visita da parte di tutti i soggetti che ne hanno titolo [...] L’uso dell’aggettivo 'idoneo' per vagamente definire tali luoghi – così come avvenuto nell’ultimo decreto che ha tenuto in un solo corpo normativo il tema del controllo delle migrazioni e quello della sicurezza – è risultato non soltanto non accettabile per il Garante nazionale, pur autorizzato al loro monitoraggio, ma anche di impossibile attuazione concreta”.

    

Rimpatri

In campagna elettorale, Salvini aveva promesso che avrebbe stanziato 42 milioni di euro per i rimpatri ma nel decreto sicurezza ne sono previsti appena tre. Aveva promesso che avrebbe rimandato indietro nel giro di poco tempo 500 mila irregolari, ma al momento il ritmo è di molto inferiore. La media dei rimpatri effettuati rispetto alle persone trattenute si è sempre attestata attorno alla metà: da un minimo del 44 per cento nel 2016 a un massimo del 59 per cento nel 2017, sceso nell’ultimo anno al 43 per cento, il dato più basso degli ultimi otto anni. “Delle 4.092 persone transitate nel 2018 nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), soltanto il 43 per cento è stato effettivamente rimpatriato”, avverte il Garante. “Un valore che è rimasto su scala analoga nel corso degli anni, mentre la durata massima del trattenimento oscillava tra i trenta giorni e i diciotto mesi. Prova della mancata correlazione tra durata della privazione della libertà ed effettività della sua finalità”. In altri termini, anche allungando il tempo massimo della detenzione amministrativa nei Cpr, la media di rimpatriati resta stabile. La detenzione di chi non viene rimpatriato finisce per non aver avuto una ragione: “Occorre chiedersi quale sia il fondamento etico-politico di tale restrizione”, continua Palma “e quanto l’estensione della durata non assuma l’incongrua configurazione del messaggio disincentivante da inviare a potenziali partenti. Sarebbe grave tale configurazione perché la libertà di una persona non può mai divenire simbolo e messaggio di una volontà politica, neppure quando questa possa essere condivisa”.

   

Il secondo motivo di uscita dai Cpr è stato, nel 23 per cento dei casi, la mancata convalida del trattenimento da parte dell’Autorità giudiziaria, un dato questo che dovrebbe invitare a una maggiore cautela nell’invio delle persone nei Cpr. La mancata convalida indica infatti che le persone non avrebbero dovuto essere trattenute. Il terzo motivo di uscita, dopo il rimpatrio e la mancata convalida, è la scadenza dei termini del trattenimento, nel 20 per cento dei casi.