(Foto Pixabay)

In carcere non ci sono i poveracci, brutta parola. Al massimo gli abbisognevoli

Adriano Sofri

“Uomini come bestie” di Francesco Ceraudo, il medico degli ultimi

Prima di raccomandare un libro sul, anzi dal, carcere, voglio fare due osservazioni. Una lessicale, contro la frase fatta sulla galera, che “ci vanno solo i poveracci”. Frase piena di condiscendenza e distanza mascherate da commiserazione. In galera vanno i poveri. Poveraccio forse all’origine ebbe un tono compassionevole, ma presto approdò al disprezzo. Dite a uno a Roma “Sei un poraccio”, vuol dire non vali niente, nun sei un cazzo. Il Vangelo dice Beati i poveri, non beati i poveracci.

 

Seconda osservazione: alla lunga, il sentimento italiano nei confronti del carcere si è involuto segnando fra l’altro la bancarotta di quanti, tra loro io, hanno provato a umanizzarlo (verbo ottimistico, niente di umano ci è alieno, ma neanche di disumano). Dei poveri ai poveri importa poco, e tanto meno ai benestanti ipocriti che dicono poveracci; ma non ha fatto che gonfiarsi, parallelamente al disgusto per le caste, le élite, “i politici” – “Ciài pure l’orologio!” – il desiderio e l’augurio vibrante della galera per i potenti. I quali ci vanno, in galera, benché sempre in minoranza. Sicché oggi un ricco può andare in galera – un anticipo del cammello nel regno dei cieli. Tutto questo sdegno per i ricchi e i ladri non ha accresciuto di un metro lo spazio dei poveri nel mondo né di un millimetro lo spazio dei poveri nelle celle: ha solo agguantato qualche ricco e potente esemplare.

 

Bene: il libro è “Uomini come bestie”, l’autore è Francesco Ceraudo, “il medico degli ultimi” (ETS, Pisa, pp. 310). Là si capisce che cosa siano i poveracci. Il riconoscimento migliore che tributerei a Francesco Ceraudo, un pazzo che ha fatto per quarant’anni e per vocazione il medico del carcere, cioè dei carcerati, è che non si sarebbe mai, di fronte a qualunque autorità terrena o celeste, piegato a far passare la salute dei suoi curati dietro ragioni presunte superiori di sicurezza, regolamenti, abitudini. A Pisa c’era (non c’è più: sembra essersi applicata una tenacia metodica alla degradazione di quel carcere) un prestigioso Centro Clinico, alla cui ombra anch’io vissi per anni, quasi morii e provvisoriamente sopravvissi. Come qualunque detenuto, diffidai di Francesco Ceraudo. Qualunque detenuto, specialmente se non sia alla sua prima volta e si illuda ancora sul rispetto della legge e sul senso di umanità eccetera, diffida di tutto e tutti.

 

Si è chiusi, invisibili al mondo di fuori, sorvegliati e spiati nell’universo di dentro – spioncini, è pieno di spioncini – ci si sente in balia dei custodi e lo si è davvero: si diffida. Si tengono le spalle al muro, si sta sul chi vive, si dorme con un occhio solo, quando si riesce a dormire: se no, non si chiude occhio. Del medico per definizione occorre potersi fidare. Si chiama così: medico di fiducia. Sapete com’è complicato il meccanismo psicologico che precede e tiene a bada la fiducia. Si diffida di chi è scostante, si diffida di più di chi è cordiale: sta facendo penzolare l’esca sotto il vostro naso. La vita vi ha insegnato: non accettare caramelle dai conosciuti.

 

Un medico è un medico, e il suo codice ippocrateo deve restare in vigore dovunque si trovi: già. Ma il carcere ha un precetto supremo e ingordo: la sicurezza. “Assicurare” le persone detenute: cioè rassicurare le altre, quelle a piede libero, assicurando e ribadendo ben bene i ceppi di quelle recluse. Ceraudo stava dalla parte della “sicurezza” o della salute? Ci misi poco a decidere: stavo bene, mi regolavo su come venivano trattati gli altri, quelli che stavano male o malissimo. I malati di Aids, i positivi al virus Hiv: il carcere era un deposito di questi malati, giovani specialmente, e poi di epatite, di tbc… Mi sembrava incredibile che si tenessero in galera persone malate di Aids, come si diceva, “conclamato”. Mettemmo su una mobilitazione su questo disastro, scioperi, digiuni.

 

Ceraudo si mostrava indipendente, non temeva di entrare in rotta con le autorità, comprese quelle del governo nazionale. Diceva di sé: “Sono un cane che abbaia alla luna”. Successe che l’associazione dei medici penitenziari da lui presieduta, seguita dagli infermieri, affiancasse un digiuno collettivo dei detenuti, con un proprio sciopero contro i tagli imponenti al bilancio della sanità penitenziaria. Lessi con speciale piacere la seguente frase del loro manifesto: “I medici e gli infermieri, per il rispetto che portano ai propri pazienti, non abbandoneranno il posto di lavoro e devolveranno il corrispettivo di una giornata lavorativa alla cassa per i detenuti abbisognevoli”. Bella parola: abbisognevoli. Mi ricordava il dottor Antonio, del romanzo risorgimentale di Giovanni Ruffini. Il resto lo leggerete, se volete.

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