Alfonso Bonafede (foto LaPresse)

Mettiamoci l'anima in pace il Bonafede-pensiero è il Davigo-pensiero

Annalisa Chirico

Il neoministro della Giustizia, intervistato dal Fatto quotidiano, chiarisce le linee guida del governo: più carcere, pene più alte e processi più lunghi

Il Bonafede-pensiero è il Davigo-pensiero, bisogna mettersi l’anima in pace. Il neoministro della Giustizia ha rilasciato un’intervista al Fatto quotidiano per chiarire, urbi et orbi, che il nuovo esecutivo intende fare sul serio. “Cancello subito lo svuota-carceri. E basta bavagli”, tuona il Guardasigilli. E c’è da crederci se si considera che il mitico “contratto di governo” mira, in buona sostanza, a una radicale u-turn rispetto all’azione degli ultimi anni: basta depenalizzazioni, drastica riduzione delle misure alternative alla detenzione, cancellazione della non punibilità per particolare tenuità del fatto, dietrofront sull’estinzione del reato per condotte riparatorie. In breve, più carcere, pene più alte e processi più lunghi.

 

Il ministro fa sapere inoltre che riscriverà il decreto attuativo della riforma penitenziaria “perché mina la certezza della pena”. Sulle intercettazioni afferma che una “regolamentazione più chiara può essere utile” purché non comprima la libera informazione (così son buoni tutti…).

 

Bonafede, che di professione è avvocato civilista, liquida il ricorso alle misure alternative come meri “interventi deflattivi”, evidentemente insufficienti in assenza dei sempre invocati “provvedimenti strutturali”. Eppure, a ben vedere, l’allargamento della platea dei condannati che possono accedere alle misure alternative consente di ridurre sensibilmente i tassi di recidiva. È per questa ragione che, a partire dal governo Monti, l’Italia, sulla scorta di esperienze positive come quella francese e britannica, ne ha ampliato l’ambito di applicazione. Ridurre il ricorso al carcere, extrema ratio, significa aumentare la sicurezza dei cittadini: in Italia sette detenuti su dieci tornano a delinquere se hanno scontato interamente la pena dietro le sbarre. Il numero dei recidivi scende a due se hanno beneficiato dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della detenzione domiciliare o della semilibertà. Dunque, per paradosso, le ragioni securitarie, spesso agitate come arma populista per aizzare le folle, suggerirebbero “meno” carcere. A patto che dall’emotività si passi alla razionalità.

 

Va pure notato che, dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita alla sentenza Torreggiani con cui nel 2013 la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia per trattamenti inumani e degradanti, abbiamo assistito negli ultimi tre anni a un costante aumento della popolazione reclusa. Si è passati dai 53.889 detenuti del gennaio 2015 ai 58.087 del gennaio 2018. Sul punto Bonafede appare rassicurante: “La priorità sarà ristrutturare gli istituti attuali che spesso hanno settori chiusi per assenza di manutenzione”. Sarebbe cosa buona e giusta, contribuirebbe a migliorare le condizioni di vita di chi già oggi sconta una condanna dietro le sbarre, spesso in celle fatiscenti incompatibili con il rispetto della dignità umana.

 

Tuttavia, se fosse attuata anche una minima parte del contratto di governo incentrato sull’innalzamento generalizzato delle pene e sull’estensione delle condotte punibili penalmente, in una manciata di settimane i nostri istituti penitenziari sarebbero nuovamente sovraffollati, esattamente come oggi. Sulla prescrizione s’intravvedono invece le prime crepe dell’asse pentaleghista, non a caso Bonafede non si sbilancia: “L’abbiamo messa nel contratto, quindi c’è la volontà comune di lavorarci”, non si sa come. Anche perché il governo Gentiloni non è stato da meno, e i termini per i reati contro la pubblica amministrazione sono stati già estesi a dismisura. La razionalità del sistema sanzionatorio non è un optional.

 

Sull’ingaggio in via Arenula dei magistrati Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, il ministro mantiene il riserbo: “È prematuro parlare di nomi”. Eppure i due togati, che hanno coltivato una “relazione speciale” con gli esponenti del M5s al punto di diventarne la bussola ideologica in materia giudiziaria, sono tra i nomi più gettonati: il magistrato siculo dovrebbe guidare il dipartimento per gli affari della giustizia mentre il secondo approderebbe al ministero solo in caso di fallimento nella corsa al Consiglio superiore della magistratura. Se la toga simbolo di Mani pulite riuscisse a coronare il sogno di un posto da consigliere togato a Palazzo de’ Marescialli, la corrente da lui fondata, Autonomia e indipendenza, piazzerebbe in via Arenula soltanto l’attuale segretario Alessandro Pepe in qualità di capo di gabinetto. Una vedetta per sorvegliare dall’alto e indicare la rotta.