Il carcere di San Vittore (foto LaPresse)

Manettara e populista, ecco la giustizia secondo il contratto Lega-M5s

Annalisa Chirico

Rubi un cioccolatino? In prigione! E' l’apoteosi del populismo penale

“E' opportuno ridurre sensibilmente ogni eventuale margine di impunità per i colpevoli di reati particolarmente odiosi”. In una frase criptica e minacciosa del contratto di governo tra Lega e M5s è racchiuso lo spirito di questi tempi giacobini. La sezione dedicata alle cose giudiziarie si pone il problema di una giustizia inefficiente e di una pena incerta, fedele ritratto della realtà. Il guaio va sotto il titolo “soluzioni” perché quelle, a esser gentili, non si vedono. Le propostine giallo-verdi, accennate con pennellate fugaci e tinte opache, sono riassumibili in un unico slogan: “Più pene per tutti”. La chiave di volta è rappresentata dalle manette. Rubi un cioccolatino? In prigione! E' l’apoteosi del populismo penale, la concezione vendicativa della pena carceraria come panacea di ogni male; una visione primitiva, già smentita dai fatti, che per giunta, nel caso italiano, ignora il paradosso di un paese che manda in carcere prima del processo e scarcera dopo la condanna. Una deriva fotografata, con parole definitive, anche da Papa Francesco: “Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione”.

 

Nella Fantasyland di leghisti e pentastellati la giustizia diventa più efficiente grazie all’ennesimo allungamento della prescrizione; i “tribunalini” di provincia, cancellati nel 2012 dalla riforma della geografia giudiziaria, vengono riaperti, e si edificano nuove carceri, si assumono tutti i poliziotti penitenziari necessari per marcare a uomo ciascun detenuto. L’obiettivo è che “chi sbagli torni a pagare”. Lo sforzo è apprezzabile, non si ravvisano errori di sintassi (Giorgetti ci avrà buttato un occhio), eppure di buone intenzioni sono lastricate le vie dell’inferno. L’indirizzo politico, che ribalta l’impostazione degli ultimi anni, soddisfa i sogni dei moderni Robespierre, eccita gli spiriti inquisitori, agita sulla pubblica piazza la shakespeariana libbra di carne, ma non risolve nessuno dei problemi testé menzionati. Anzi, li aggrava pericolosamente.

 

Partiamo dalla giustizia efficiente. Davvero qualcuno realisticamente ritiene che la procura sotto casa sia il rimedio a processi pachidermici? La riforma del 2012, voluta dall’allora Guardasigilli Paola Severino, perseguiva l’obiettivo di razionalizzare e ottimizzare la destinazione delle risorse, contro parcellizzazione ed inevitabili sprechi, avanzando nel solco della specializzazione togata. La geografia giudiziaria era ferma all’epoca dell’Unità d’Italia. I risultati conseguiti dal cosiddetto ‘Tribunale delle imprese’ a Milano, in termini di abbattimento di tempi e costi procedurali, confermano che la direzione di marcia era quella giusta. Oggigiorno esistono notevoli gap di produttività tra uffici giudiziari che distano poche decine di chilometri. A parità di risorse e norme, alcuni fanno bene, altri male. Un buon magistrato non è per forza un buon dirigente. Negli Stati Uniti il court manager è laureato in business administration, non in Legge. Ma di questo il contratto carioca non parla, l’idea è che i processi arriveranno a sentenza estendendo i termini per la prescrizione, s’insegue il mito del processo ad aeternum, infatuazione demagogica alla quale neppure l’ultimo governo è stato immune. Allunghiamo i processi nel paese con i processi tra i più lunghi d’Europa: un favore ai colpevoli, uno schiaffo alle vittime. Va da sé che vanno assunti più magistrati, i reati sessuali richiedono “nuove aggravanti” (quali quali?), il Csm è guidato da “logiche spartitorie e correntizie” (nessun cenno su come riformare il sistema di elezione). Si procede per slogan tanto roboanti quanto vaghi.

 

La retorica sfascista raggiunge l’acme al paragrafo 14, “Lotta alla corruzione”: qui il repertorio davighiano fa mostra di sé. L’utilizzo delle intercettazioni va “potenziato”, non si sa come; le pene, manco a dirlo, vanno aumentate, preclusi sconti e riti premiali; per corrotti e corruttori si evoca, in rigoroso stampatello, il DASPO con interdizione perpetua dai pubblici uffici (lecito dubitare che la Consulta sarebbe d’accordo). La ciliegina sulla torta è l’introduzione di un istituto estraneo al nostro ordinamento: l’agente provocatore, antico pallino davighiano, è colui che, attraverso una messa in scena, “crea” un reato al fine di testare la tenuta morale del cittadino. Un incubo per chi ritiene che il compito della giustizia penale sia punire coloro che hanno violato la legge, non coloro che sarebbero “propensi” a violarla. Si parla di estensione della legittima difesa domiciliare, ma su molti dettagli bisogna intendersi. Destano invece inquietudine i provvedimenti miranti a un radicale U-turn in materia di depenalizzazioni, non punibilità per particolare tenuità del fatto, estinzione del reato per condotte riparatorie. Si torneranno a celebrare centinaia di udienze, a spese della collettività, per il furto di un ovetto kinder (è accaduto a Lecce). Una giustizia efficiente esige un codice penale snello perché solo un “diritto penale minimo” – poche norme e chiare – garantisce la certezza della legge (e limita la discrezionalità di chi è chiamato ad applicarla).

 

In molti casi una sanzione civile e amministrativa si rivela più tempestiva ed efficace, segnatamente nell’interesse della persona offesa. Chi inneggia alle manette sempre e comunque ignora che i tassi di recidiva sono sensibilmente inferiori quando la pena viene scontata attraverso il ricorso a misure alternative. Un detenuto abbandonato all’ozio di una cella torna a delinquere. La persona a cui viene offerta una possibilità concreta di riscattarsi, imparando un mestiere, contribuendo alla vita di una comunità, ha più chance di uscire dal circuito criminale. In Italia esiste un gigantesco problema relativo all’aleatorietà della condanna, e un sincero garantista che abbia a cuore lo stato di diritto si batte per una pena effettiva. Tuttavia, anche su questo punto, il contratto non va oltre l’ammiccamento demagogico. La schizofrenia tutta italiana di un pm obbligato ad arrestare in flagranza il ladro, scarcerato un attimo dopo da un gip, impone modifiche normative neppure accennate nel famigerato contratto. La strategia generale ha il sapore di una suggestione. Più carcere, tanto basta. Magari fosse vero.

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