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La chimica della Parigi-Roubaix spiega l'amore

Giovanni Battistuzzi

Oggi si doveva correre la Regina delle Classiche, la pandemia di Covid-19 l'ha rimandata. La passione per questa corsa spiegata da un fallimento scientifico

Era il 12 aprile del 1987 quando il professor Rouault, un bretone burbero e dai modi non proprio gentili, diventò per un giorno un’altra persona, una persona migliore. Sorrideva, aveva uno sguardo allegro e trattava tutti con bontà e comprensione. Addirittura, racconta un ricercatore che all’epoca per lui lavorava, offrì il pranzo a tutta l’equipe: cinque persone, “e lui non cacciava mai un soldo per nessuno, cascasse il mondo”.

 

Il professor Rouault sembrava l’uomo più felice del mondo, perché era nel luogo che lui amava di più, dopo Saint-Malo, nel giorno giusto: a Roubaix, il giorno della Parigi-Roubaix. Era lì per lavorare, ma non se ne crucciò. Tanto avrebbe iniziato a brigare le sue cose a gara finita.

  

Il professor Rouault se ne stette ore seduto su di una seggiola nel rettilineo fuori dal Vélodrome “André Pétrieux” (la corsa in quegli anni non finiva con il tradizionale giro e mezzo di pista) a gustarsi la corsa con il suo bicchiere di birra, fregandosene del vento, del freddo e del fatto che il suo idolo, Marc Madiot, fosse lontano dai migliori tre, tutti belgi, che avevano seminato gli altri lungo i settori di pavé. Sembrava un bambino alle prese con un regalo da scartare. Lo sprint a tre tra Eric Vanderaerden, Patrick Versluys e Rudy Dhaenens lo vide a bocca aperta, applaudendo come un tifoso qualsiasi. Del perché fosse lì se ne ricordò solo quando uno dei suoi assistenti lo chiamò: “Andiamo”, “a fare cosa?”, rispose. “I test”, “ah già, è vero”.

 

 

Si alzò. Si ricompose. Prese la valigetta e si diresse verso la zona mista. Aveva appuntamento con una ventina di corridori e con una ventina di tifosi. Un piccolo prelievo, cosa da pochi attimi. Nessun test antidoping, era stato chiaro, solo una ricerca scientifica sulla concentrazione di un ormone che stava studiando.

 

Finì, tra una cosa e l’altra a sera già scesa. E quando se ne uscì dal velodromo vide la città che ancora festeggiava. 

 

Le sue cavie le aveva trovate su base volontaria dopo un test psicologico. Cercava appassionati della corsa, degli “entusiasti”, come li aveva classificati lui, che si prestassero alla ricerca. Non fosse per un amico che lavorava alla Système U, una squadra dell’epoca, non sarebbe mai riuscito a fare nulla. E quasi sarebbe stato meglio, perché gli esiti dei test furono un tale disastro che se la prese a male per mesi e mesi. Ciò che stava studiando si rivelò un fallimento. Nulla di interessante, ciò che immaginava non si era concretizzato. Le sue teorie avevano avuto riscontro nei topi, non negli umani. Una cosa però gli saltò agli occhi: nei corridori il tasso di ossitocina, un ormone legato in qualche modo alla sessualità, era superiore ai livelli stabiliti. E lo stesso per i tifosi.  

  

Solo quasi vent’anni dopo il professor Rouault capì perché. Lo comprese leggendo il lavoro dell’antropologa Helen Fisher sull’innamoramento. Capì a cos’era dovuto quel valore che all'epoca gli apparì strano: attaccamento relazionale a qualcosa a cui si vuole bene. Insomma amore al livello più maturo. “Avessi approfondito ciò che avevo scoperto avrei fatto un favore alla scienza e anche a me stesso. Sono stato superficiale e dire che quello non era il mio campo di studio è una giustificazione. Peccato. Mi rincuoro però nel pensare di aver visto una grande corsa, la mia corsa del cuore, la Roubaix”. Una pausa, i ricordi che si riannodano, poi le parole che tornano. “E sì che sono uno che in bicicletta ci va sempre, che il ciclismo l’ha sempre seguito. La Roubaix non è una corsa qualsiasi: la Roubaix ti sceglie e la si sceglie, ti cresce dentro”.

 

Prima del professor Rouault lo capì Miguel Poblet, catalano di Montcada i Reixac. “Mi fu chiaro nel 1954, alla mia prima partecipazione: questa corsa è qualcosa da fuori di testa, un monumento alla follia. Ma una follia d’amore. Ho vinto tanto nella mia carriera, l’unico cruccio che ho è non aver soddisfatto la mia passione per la Roubaix: la sfiorai, Léon Van Daele mi sorpassò negli ultimi metri, fu una delusione grandissima”.

 

Dopo il professor Rouault lo capì Franco Ballerini: “Quando le pietre ti scuotono hai due possibilità: o detestarle oppure abbandonarti a loro. Se scegli la seconda vuol dire che l’amore ha superato la logica”. 

   

 

E lo capì Juan Antonio Flecha, argentino di Buenos Aires ma ciclisticamente spagnolo, anche lui come Poblet uomo innamorato delle pietre del nord, anche lui con il cruccio di non aver mai conquistato l’enfer. Un amore casuale, del quale si è accorto per caso, quando per la prima volta ha pedalato tra le Fiandre: “Deve essere nei miei geni, a volte non sai perché ti piace qualcosa o perché ti innamori. Mi piace la diversità di queste corse, mi piacciono i ciottoli, mi piace il modo in cui devi correre”. 

 

Forse però la miglior descrizione di questo particolare genere d’amore lo espresse Mathew Hayman, che si ritrovò nel petto un cuore pieno di pietre dall’altra parte del mondo, Australia. Di Roubaix ne ha corse sedici, l’ha vinta nel 2016, la scoprì nel 2000. Fu subito amore. “È un istinto primordiale, un richiamo della natura, lo senti scoppiarti nel corpo, riempirti il cervello. Fa tutto lei, ti sceglie e tu non puoi far altro che aspettare tutto un anno per correrla. Non importa se la vinci o la perdi, finirla, entrare nel velodromo pieno, i tifosi che aspettano tutti e tutti applaudono, è già una goduria pazzesca”. 

 

Una goduria pazzesca che doveva riproporsi oggi, ma che a causa della pandemia di Covid-19 è stata rinviata a data da destinarsi, almeno quest’anno. Se il professor Rouault facesse oggi i test che fece nel 1987 troverebbe livelli di ossitocina decisamente bassi. 

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