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La musica della Parigi-Roubaix. Come suona il pavé dell'Inferno del nord

Giovanni Battistuzzi

È una corsa unica, un salto indietro nel tempo, con un rumore tutto suo. Un ex meccanico racconta che ci vuole orecchio per apprezzarla davvero

Non ci fossero persone a bordo strada, non ci fossero gli auricolari nelle orecchie a trasmettere le parole dei direttori sportivi, non ci fossero macchine e motociclette ad aprire e a chiudere il varco per il passaggio dei corridori, il suono delle pietre si potrebbe udire in tutta la sua complessità. Un insieme di fruscii morbidi e di tonfi sordi, di tintinnii metallici e di squittii striduli, che si impastano al battere accelerato del cuore che ti rimbomba in gola, mentre il respiro si fa sibilo e grancassa.

 

La Parigi-Roubaix (domenica si correrà la 117esima edizione) è l’unica corsa al mondo che è musica. “Ha un suo suono, una frequenza dedicata, data in esclusiva solo a lei”, racconta al Foglio Florian Cheiny, che a Roubaix ci è nato per sbaglio ottantasette anni fa, è cresciuto a Lilla, ha vissuto tra Oudenaarde e Velletri, ha fatto il meccanico per una vita e per un decennio si è occupato delle biciclette di importanti squadre professionistiche. “Nei settori di pavé senti una melodia particolare, distante da qualsiasi altro luogo, da qualsiasi altra gara. E sì che sulle pietre ci si passa anche altrove e sempre in bicicletta. Ma lassù è diverso, completamente diverso. Non c’è nulla che ci si avvicini, nemmeno il Giro delle Fiandre”.

 

 

Cheiny aveva una ciclofficina in centro a Gand, da lui passavano semplici appassionati e grandi campioni. “Dicevano che avessi l’orecchio giusto per capire cosa non andava. Perché a volte, almeno in questo lavoro, non basta la vista, devi ascoltare la bici, è grazie all’udito che capisci il problema”. Ha continuato ad ascoltare per una vita. Sia nella sua officina, sia lungo le strade del grande ciclismo. Dieci primavere e dieci estati a muoversi per Belgio e Francia, prima alla Groene Leeuw nel 1960 voluto da Arthur De Cabooter, che proprio in quell’anno vinse il Giro delle Fiandre, poi per un lustro alla Flandria – a curare le bici di Rik Van Looy, Noël Foré e Guido Reybrouck –, infine, sino al 1969 alla Mann con Herman Van Springel. “Dieci Fiandre, dieci Roubaix, cinque Tour de France, quattro Giri d’Italia e un sacco di altre corse. Non avrei mai detto che potesse succedere una cosa del genere proprio a me che avevo smesso di correre presto perché non sopportavo l’idea di starmene lontano da casa. Vinse la passione: troppo grande”. Un periodo che si chiuse il giorno in cui “sono tornato a casa dopo due mesi in giro per la Francia tra Tour e criterium e ho visto mio figlio che già pedalava. E per di più di una bici scassata. Ho deciso allora che non valeva la pena continuare a risolvere i problemi delle biciclette altrui quando a casa c’era un bimbo che aveva un rottame a pedali”. Cheiny salutò il ciclismo, tornò in bottega tra i suoi attrezzi.

 

Quelle quattro mura divennero il suo santuario, un tempio dedicato alla cura e alla manutenzione delle biciclette. E forse anche di se stesso: “Sistemare freni, ruote e telai è il migliore antidoto allo stress della vita: c’è qualcosa di profondamente spirituale nel sentire tra le mani un pezzo di acciaio, nello sporcarsele di grasso e ruggine, lo stesso che si prova pedalando, quando la tua mente si libera da qualsiasi preoccupazione”.

 

Un tempio che non ha lasciato mai incustodito sino alla pensione, salvo per tre giorni all’anno, sempre gli stessi, quelli della Roubaix.

 


Foto tratta dalla pagina Facebook della Paris-Roubaix 


 

Da Oudenaarde al Carrefour de l'Arbre, uno dei tratti più difficili e più spettacolari dell’”Inferno del nord”, ci sono una cinquantina di chilometri, una distanza che assieme a tre amici – “anche se ora ne è rimasto uno soltanto” – coprivano in bici ogni primavera. “All’inizio caricavamo la tenda sulla bici e campeggiavamo a bordo strada. Ultimamente l’età ci ha consigliato di dormire in qualche locanda”.

 

La Roubaix è una passione irresistibile: “Già a vederla in televisione si capisce la sua unicità, ma è da bordo strada che il suo fascino ti avvolge. Ti ritrovi in un altrove storico, in un mondo che non c’è più”. Eppure alla corsa, Cheiny preferisce la vigilia. Quando la campagna francese è deserta e nulla si muove all’orizzonte se non qualche sagoma in bicicletta che vaga veloce e sobbalzante su quelle strade che continuano a ignorare la modernità. “È quello il momento migliore per sentire la Roubaix. Quando passano le squadre per la ricognizione e non ci sono rumori che coprono il suono delle pietre”.

 


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Lui e i suoi amici stavano là per delle ore, sotto il sole o un ombrello, seduti su di una sedia da campeggio, con un panino in una mano e una birra nell’altra, a parlare del più e del meno, a ricordare gare passate, a pianificare possibili imprese future. Poi quando la polvere (o il fango) iniziava ad alzarsi e i corridori, da macchie indefinite in lontananza, assumevano colore e tratti somatici, “ecco che arrivava quel sommarsi di ottoni e tamburi”. Un suono che è cambiato negli anni, “più acuto e argentino quando i telai erano in acciaio, più ridondante, quasi filastrocchesco quando si è passati all’alluminio, sordo e malinconico ora che sono di carbonio”. Ma tant’è, “la bici è ancora una perfetta cassa armonica, aumenta l’intensità dei suoni che l’attraversano e dei sentimenti di chi ci sta sopra. Nei decenni si è alleggerita, si è evoluta, ma non è cambiata: sui pedali ci devi spingere e per spingere ci vogliono gambe e polmoni”.

 

Gambe e polmoni che a Roubaix contano più che altrove: “Questa corsa è forse l’unica nella quale ancora resiste quella dannazione che i corridori di un tempo si portavano addosso. La vedi all’arrivo ancora appiccicata al volto. Sei in un inferno di polvere se c’è il sole, di fango se invece piove. Ma è un dannato paradiso. Basta sentire la musica delle pietre”.

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