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Il Foglio sportivo

L'inverno proibito dei ciclisti

Giovanni Battistuzzi

Se d’estate gareggiano, nei mesi freddi non sempre si riposano. Il mondo sottosopra dei forzati della strada tra tavole imbandite, letti e velodromi

Ma quali spiagge, ma quale estate, meglio l’inverno. Che quando il solleone batte e scalda anche troppo, è tempo di pedalare, scattare, inseguire, dannarsi il fiato e pure l’anima.

 

Quello del ciclismo è un mondo sottosopra che con il freddo riposa e con il caldo fatica, che con la “cattiva” stagione si diverte e con la bella pena. Allieta le vacanze altrui, rovina le proprie, o meglio le sposta, riempie quelle dei tifosi, svuota quelle dei corridori e delle loro famiglie.

 

Quello del ciclismo è un mondo sottosopra, ma nemmeno poi tanto, che magari perde il Ferragosto, ma almeno si gode il Natale e non ha problemi neppure a Capodanno: si finisce a ottobre, anche se ormai si sfora a novembre e ci si ripensa con il nuovo anno. E così si mettono sotto l’albero vizi e stravizi che tanto ad arrivare a marzo, quando le grandi corse ritornano sulle strade, c’è tempo per rimettersi in carreggiata. D’inverno i ciclisti allargano le maglie di diete e regimi d’allenamento, si concedono quello che non possono fare e avere per mesi. O meglio, un po’ soltanto di quello che non si possono permettere durante primavera, estate e autunno, ché, come ripeteva colui che si inventò il Tour de France, Henri Desgrange, “un ciclista è ciclista tutto l’anno ed è meglio che sia monaco per indole, morigerato per natura”. 

  

Grama vita quella dei ciclisti, passata a rinunciar a tanto, almeno ora, a quasi tutto, almeno un tempo. Uomini che per decenni scappavano dalla fame su di una bicicletta e incontravano la dieta, ferrea, quando staccavano la spina dalle gare. “A mangiare sì, ma il giusto nello inverno, mai di più. E niente dolci”, ripeteva l’Avucatt, quell’Eberardo Pavesi che scoprì la bicicletta sul finire dell’Ottocento, scavalcò il Novecento pedalando e dopo aver smesso si occupò di far correre gli altri per oltre mezzo secolo.

  

Ullrich era capace di “resistere a ogni fatica”, disse un suo compagno, ma non a birra, pasta, knödel e cioccolata

Gli inverni degli anni 50 erano quelli delle grandi riunioni nei velodromi. A Parigi c’era chi aveva una stanza per le “conquiste”

L’avesse sentito Jan Ullrich si sarebbe risparmiato un po’ di delusioni. Ma il tedesco aveva solo un anno quando l’Avucatt se ne andò e anche se ci fosse stato Pavesi nulla sarebbe probabilmente cambiato. Perché il ciclismo era mutato, il suo mondo era sempre meno monacale e il tedesco era un amante di tutto ciò che non andava fatto. Qualche anno fa Bert Dietz, ex compagno di squadra e di allenamenti di Kaiser Jan, raccontò alla Bild che “Ullrich era un fenomeno che riusciva a resistere a qualsiasi fatica ma non a birra, pasta, knodel e cioccolata”. Gli inverni del tedesco erano un banchetto che non finiva più, un vagabondare tra feste e cene. Sul suo conto si sprecano gli aneddoti a tal punto che non si sa più distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. I mesi lontani dalle corse diventavano così chili in più che tiravano le magliette e appesantivano la pedalata, si trasformavano in tempo perso a smaltirli. E così l’avvicinamento al Tour de France diventava un inseguimento alla forma migliore. Quando questa arrivava, perché arrivava sempre, il tedesco era capace di battere chiunque, ma era sempre troppo tardi. “Non si fosse trasformato in un salame ogni inverno avrebbe fatto mangiar polvere ad Armstrong”, disse alla tv tedesca il suo ex direttore sportivo Rudy Pevenage.

 

 

La fortuna di Valère Ollivier è stata che, al contrario di Ullrich, non ha mai voluto competere per la vittoria di una grande corsa a tappe. Il belga era uomo da Classiche del nord, discreto velocista, uomo infaticabile. Soprattutto a tavola. Di lui Albert Sercu, padre del grande Patrick – uno dei migliori pistard della storia nonché oro olimpico a Tokyo 1964 nel chilometro da fermo –, raccontò che “era capace di mangiare l’impossibile, poi di mettersi in bicicletta e sciropparsi 200 chilometri come niente fosse per digerire”. Quando nel 1948 si presentò al ritiro prestagionale “non lo riconoscemmo neppure. Aveva 20 chili in più. Il ds si arrabbiò. Lui rispose che se di primavera ed estate lo guardava lui, d’inverno lo guardava Dio e Dio non gli aveva mai detto di non mangiare. A maggio vinse la Gent-Wevelgem: nessuno gli obiettò più nulla”.

 

Se le abbuffate invernali rimangono un tabù anche nel ciclismo di oggi, questo sport è riuscito a diventare più tollerante nei confronti di un altro “vizio” che veniva confinato al periodo invernale: le donne. Walter Bernardi ci ha dedicato un bellissimo libro sull'argomento: Sex and the bici (Ediciclo, 2015).

 

In Prendi la bicicletta e vai, che altro non era che “il gran manuale per gli aspiranti corridori italiani”, Giuseppe Ambrosini, ex direttore della Gazzetta dello sport, scriveva che “è meglio osservare in tempo di gare e di preparazione assoluta castità”, perché “l’atto sessuale facilita l’insorgere della fatica per il consumo di energia nervosa”. Il libro uscì nel 1953 e racchiudeva oltre mezzo secolo di teorie non dimostrate ma applicate da chiunque. “Astinenza, astinenza” ripetevano allenatori e preparatori e pure i campioni erano convinti che quella fosse l’unica via per vincere. D’altra parte una delle massime che Pavesi ripeteva a tutti i suoi atleti era: “Per andare forte bisognava ciulà no”.

 

 

Quando l’Avucatt gliela espose a Raffaele Di Paco, uno dei migliori velocisti degli anni Trenta, annunciandogli che gli avrebbe messo alle calcagna uno dei suoi per controllarlo, il corridore rimase interdetto, allargò le spalle e disse al compagno Secondo Magni: “Poco male, mi rifarò d’inverno”. Era il 1933 e il toscano corse in castità. Conquistò il Giro della Provincia di Milano (competizione a due prove che prevedeva una cronocoppie su strada e un gara su pista), all’epoca corsa di prestigio del panorama italiano, una tappa al Giro e quattro al Tour. Collezionò soprattutto le lettere delle ammiratrici e una volta messa la bicicletta a svernare “le contattò tutte e programmò l’inverno uscendo prima con una e dopo con le altre”, raccontò Learco Guerra.

 

C’è chi si affidava alla programmazione e chi improvvisava non smettendo di correre, ché l’inverno non sempre era momento di svago, era anche il periodo buono per mettere in saccoccia un po’ di soldi. “I migliori ingaggi li ho fatti mentre gli altri si godevano il letargo viaggiando per l’Europa”, raccontò Fausto Coppi a Orio Vergani. Erano gli anni Cinquanta, era quella l’epoca delle grandi riunioni nei velodromi, kermesse e sfide che entusiasmavano un numero spropositato di persone (almeno a paragonarlo coi numeri di oggi) e avevano trasformato il Vel d’Hiv (Vélodrome d’Hiver) in un salotto buono per la meglio borghesia parigina e luogo di ritrovo per decine di migliaia di appassionati delle pedivelle.

 


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Spettacolo imperdibile per gli amanti del ciclismo che guardavano la pista sognando il Tour, appuntamento gustoso per i ciclisti che per qualche giorno diventavano i re della capitale francese. Uno dei migliori pistard dell’epoca era Louis Gérardin, vero specialista dei velodromi. Toto aveva presto capito che la vita del corridore su strada non era fatta per lui. Sognava la velocità, non il Tour de France, alle borracce preferiva lo champagne e alla maglia gialla le paillettes dei vestiti delle ballerine. Era un bell’uomo, capelli biondi all’indietro, occhi furbi, “la parlantina brillante, dura ma raffinata, un vero charmant”, lo descrisse Roland Barthes.

 

Gérardin usava i velodromi come luoghi di seduzione. “Le riunioni per lui erano una scusa. Aveva una classe innata sia sui pedali che con le donne. Scendeva in pista, correva, spesso vinceva e una volta finito si guardava attorno, sorrideva alla ragazza che più gli piaceva e poi ci attaccava bottone”, raccontò all’Equipe Jacques Anquetil. “Dal dopoguerra a quando venne demolito (1959) Toto ebbe il suo studio al Vel d’Hiv. Una stanza sotto una delle curve. Un letto, un giradischi, un frigo e un piccolo bagno”. Era lì che portava le sue donne, “quasi mille” ammise Barthes. Tra loro c’era Édith Piaf che di lui si innamorò follemente dopo la morte di Marcel Cerdan. Durò qualche mese la loro storia. Finì a bottigliate, una bici scagliata contro la vetrata d’ingresso del velodromo e una canzone dura e struggente “Bravo pour le clown”.

 

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