Gino Bartali e il cuore dei giusti: diventerà cittadino onorario di Israele

Giovanni Battistuzzi

Lo Yad Vashem con una procedura speciale conferirà la cittadinanza onoraria alla memoria del campione di Ponte a Ema 

Lo Yad Vashem, l'Ente nazionale per la Memoria della Shoah di Israele, è memoria di un nefasto passato, è monito per un futuro che non lo deve più essere. C'erano uomini e donne che hanno provato a salvare altri uomini e donne dal folle sterminio, uomini e donne che sono diventati Giusti tra le nazioni, non solo un'onorificenza, un attestato di umanità e coraggio. "La legge sui Giusti tra le Nazioni – spiega il portavoce del Museo Simmy Allen –, consente a Yad Vashem la prerogativa di conferire anche, in casi particolari, una cittadinanza onoraria di Israele a chi fosse ancora in vita, oppure postuma ai suoi congiunti". L'ultima volta fu nel 2007, la prossima il 2 maggio, a Gerusalemme, due giorni prima dell'avvio del 101esimo Giro d'Italia quando questo onore verrà riservato a Gino Bartali. La procedura è "molto rara", spiega Allen, quindi "usata con il contagocce", quindi "speciale". Speciale come un uomo che in bicicletta ha superato i confini del ciclismo, ha raggiunto la storia, sportiva e soprattutto non sportiva. Perché Bartali non è stato solo un ciclista che ha vinto tre volte il Giro d'Italia e due volte il Tour de France, che ha conquistato un altro centinaio di corse, ma è stato soprattutto un uomo per bene, divenuto, suo malgrado, un'idea di Italia, un modello di esistenza. 

 

Gino Bartali e Fausto Coppi, per anni Gino Bartali o Fausto Coppi. Parte di un binomio, campioni irripetibili. Dimmi chi tifi, ti dirò chi sei: funzionava così allora, quando il paese provava a mettersi alle spalle un ventennio di dittatura e cercava di ricostruirsi un futuro. Gino Bartali e Fausto Coppi divennero le due facce di un'Italia che ancora non capiva bene cosa sarebbe  diventata. Il ciclismo allora era espressione di un paese, ritratto e simbolo di un periodo tumultuoso, di identità differenti che cercavano un appiglio per costruire il senso di un paese. Gino e Fausto furono, in parte, quell'appiglio, con i loro scatti e i loro successi, con le loro fragilità e le loro cadute, con le loro facce e le loro parole, soprattutto con i loro silenzi. I molti di Fausto, l'unico di Gino. Perché Ginettaccio brontolava spesso, si lamentava di tutto, ché "l'è tutto sbagliato, l'è tutto da rifare", ma di una cosa mai parlò pubblicamente, ché "il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca".

 

Il bene fatto in anni difficili, di leggi razziali e guerra, di rastrellamenti e sparizioni, di una follia chiamata antisemitismo, di condanne a morte in quanto ebrei, per questo da eliminare. Gino che una cosa sola sapeva, che Dio non lo avrebbe voluto, il suo Dio, quello a cui si affidava ogni mattina, a ogni corsa, ma non per chiedere gloria, ma per chiedere salvezza, di ritornare a casa, dalla sua famiglia. Gino che era giusto, e non solo tra le nazioni, era giusto con se stesso e con quello che vedeva. Giusto con gli altri. Aveva iniziato a pedalare dalla sua Ponte a Ema sino ad Assisi con qualche panino in tasca all'andata e qualche documento falso al ritorno, documenti che voleva dire salvezza per uomini, donne e bambni. Carte d'identità che da una stamperia clandestina venivano inseriti all'interno del canotto della sella del campione e che raggiungevano il vescovo di Firenze che li distribuiva a chi doveva espatriare per sfuggire, in questo modo, ai rastrellamenti. Gino pedalava e sfruttava la sua notorietà per far impazzire anche la stazione di Terontola, due parole e tre borbottii al caffè, sempre in concomitanza con l'arrivo del treno da Assisi, dal quale scendeva chi non si doveva far trovare da fascisti e nazisti: partigiani ed ebrei che in questo modo potevano trovare una via di fuga.

 

Ottocento persone scampate così al massacro, ottocento vite che non furono vanto pubblico, ma consolazione privata, qualcosa da tenere per sé e con sé nel silenzio dei giusti, di chi sa che ha fatto quello che doveva fare. Perché ci sono "diritti e doveri e soprattutto doveri morali", diceva Ginettaccio brontolando però che "ai primi ormai si fa un po' troppa attenzione e un po' troppa voce", mentre si tende a dimenticarsi degli altri due. Parlava, ed erano gli anni Novanta ai giovani corridori toscani. Parla, e sono gli anni Dieci del Duemila, a tutti noi.

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