Il Giro d'Italia parte da Israele. Ed è bene così

Giovanni Battistuzzi

Gino Bartali, campione di ciclismo e giusto tra le nazioni, è il ponte che collega la corsa rosa allo stato ebraico: un'opportunità economica e sportiva che non deve temere boicottaggi. Bahrain e UAE non ne faranno

Tre tappe, una a cronometro, forse due sprint ma su percorsi complicati, non banali; quattrocentotre chilometri che sono incipit estero, per la prima volta non europeo, di un'altra storia italiana, la centunesima, quella del Giro d'Italia, versione 2018 che inizierà il 4 maggio. La Grande Partenza sarà medio orientale, Gerusalemme, Israele. Tre giorni su strade che sono un richiamo, sottile, ma non forzato, a un cuore del passato, grande e performante in corsa, generoso negli anni della seconda guerra mondiale, quello di Gino Bartali da Ponte a Ema, campione del ciclismo tra gli anni Trenta e i Quaranta, Giusto tra le nazioni dal 23 settembre 2013, per l'aiuto offerto agli ebrei durante gli anni delle leggi razziali. Un tributo postumo attribuitogli che Ginettaccio aveva già intrapreso la sua ultima fuga, perché "il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca". E le sue furono medaglie furono documenti e identità fittizie trasportati dentro il canotto della sella, per le strade di Toscana e Umbria, pezzi di carta che salvarono molti uomini, donne e bambini, circa ottocento, dai campi di concentramento e di sterminio.

 


Le prime tre tappe del Giro d'Italia 2018


Una partenza lontana, alla quale si stava lavorando da tempo, che onora chi ha onorato il Giro, e che è una prima volta assoluta: mai una grande corsa a tappe si era spinta tanto altrove dall'Europa. Un azzardo che azzardo non è, perché la Corsa rosa si è dato un obiettivo, quello di ritornare a essere l'alternativa più credibile allo strapotere del Tour de France, accentratore ciclistico di sogni e ambizioni stagionali. E se il Tour continua a essere un Moloch imbattibile, sia per fascino, sia per visibilità, sia per giro d'affari; e se la Vuelta di Spagna continua a crescere e ad attirare grandi protagonisti, anche grazie al fatto di essere organizzata dall'Aso che altro non è che l'organizzatrice della Grande Boucle, il Giro non ha altro modo per mantenere il suo posto nel mondo del ciclismo offrendo percorsi spettacolari (le ultime edizioni lo sono state), spiazzando la concorrenza e allargando la platea di spettatori e appassionati. Perché, come la ultima spettacolare Vuelta insegna, è vero che la corsa viene resa interessante dai corridori, ma se l'appuntamento centrale dell'anno rimane il Tour è molto più semplice tentare di provare a smaltire le delusioni francesi in terra di Spagna, che provare a vincere in quella d'Italia con il rischio di arrivare con le gambe sfinite a contendersi la maglia gialla.

 

Israele diventa in questo modo vetrina per il territorio italiano che raggiunge anche quei luoghi nei quali il verbo del ciclismo è uno soltanto, quello francese. Israele diventa un rischio calcolato, esotismo a pedali in un ambiente che, nonostante l'estensione dei calendari e l'allargamento della geografia delle corse, rimane ancora fortemente eurocentrico.

 

Israele diventa soprattutto un test per capire quanto ancora il ciclismo possa parlare alla società.

 

Giordano Cottur che si portò dietro un manipolo di avventurieri nel Territorio libero di Trieste nonostante la sassaiola di titini a Pieris; Gino Bartali e l'attentato a Palmiro Togliatti, con tutto quello che è stato scritto e con tutto quello che è stato ricamato su; Fausto Coppi e la Dama Bianca; il Giro d'Europa del 1954 di Torriani anticipatore di un percorso di accelerazione dell'Unione europea, per stessa ammissione di Christian Fouchet, il politico francese che nei primi anni Sessanta, all'interno della Commissione che portava il suo nome, avanzò i primi tentativi di riforma delle istituzioni comunitarie; e poi la vittoria alla Liegi-Bastogne-Liegi di Carmine Preziosi che favorì il superamento dei vecchi sindacati belgi e il miglioramento delle condizioni nelle miniere. Esempi di quando e quanto questo sport sia riuscito nel secolo scorso a superare i confini dello sport per farsi storia e non solo nazionale.

 

Episodi del secolo scorso che si paleseranno per le strade di Israele al passaggio dei corridori. Perché se all'avvio estero il pubblico del ciclismo si è abituato, la partenza da Gerusalemme sarà in ogni un capitolo a sé. Lo sarà per la storia che porta a facili giudizi sulla situazione politica della regione, alla Palestina e alle guerre che hanno visto opposti il mondo islamico e quello ebraico. Un panorama ancor più complicato ora che all'interno del ciclismo si sono affacciate squadre sponsorizzate da consorzi di imprese di stati della penisola arabica che non hanno rapporti diplomatici ufficiali con Israele. Problemi che paradossalmente interessano meno lì che da noi.

 

Nei giorni scorsi, quando l'indiscrezione di una partenza da Gerusalemme era trapelata, le critiche e le ipotesi di boicottaggio non sono infatti venute da Bahrain e Emirati Arabi Uniti (che sponsorizzano Bahrain-Merida, la squadra di Vincenzo Nibali, e UAE-Emirates, la formazione di Modolo e Ulissi), ma dall'Italia, da quei gruppi che considerano doveroso il boicottaggio di Israele. La scorsa settimana, infatti, il re del Bahrein, Hamad bin Isa al Khalifa, aveva infatti bollato come indegno il boicottaggio arabo contro Israele, sostenendo che i suoi sudditi sono liberi di recarsi in visita nello stato ebraico. Una parziale apertura arrivata negli ultimi anni anche dagli Emirati Arabi Uniti che con Israele, seppur non aprendo canali diplomatici ufficiali, si è avvicinata a Gerusalemme in chiave anti Iran.

 

Una normalizzazione che, paradossalmente, vede come primi avversari l'intransigenza europea. Nessuno vuole veramente lasciare a casa Nibali se non forse una parte degli italiani.