Foto tratta dal profilo Twitter della Strade Bianche

La Strade Bianche che più bianca non si può

Giovanni Battistuzzi

Sabato si corre la dodicesima edizione della corse sugli sterrati del senese. Una gara già diventata una Classica e che quest'anno, con ogni probabilità, sarà indimenticabile

Non arte, neppure musica. Lì classica è genere, attributo, rappresenta un'epoca, un tempo fatto e finito, reso eterno. Il ciclismo non appartiene né all'arte né alla musica, al massimo alla letteratura. Sarà che il flusso di gambe sulle pedivelle è dinamismo per lo più raccontato, ora anche visto; sarà per vicinanza terminologica a quel qualcosa che non ha età, ché classico può essere qualsiasi cosa di qualsiasi tempo, anche moderno. Non c'è temporalità, c'è sostanza. E la sostanza dice che accanto a corse che non sono solo corse ma monumenti (Milano-Sanremo, Giro delle Fiandre, Parigi-Roubaix, Liegi-Bastogne-Liegi, Giro di Lombardia), ce ne possono stare altre che lì accanto possono non impallidire. Anche perché è difficile far impallidire scenari ocra e verdi macchiati di bianco. Anche perché è difficile far impallidire una corsa che si chiama Strade Bianche e che nemmeno dodici anni dopo il primo tentativo è già considerata evento da segnare in rosso nel calendario, Classica già quasi dalla prima edizione, perché unica, perché inimitabile, perché mitica, forse pure un po' eroica.

  

Sabato si correrà la dodicesima edizione della corsa ciclistica che vaga tra gli sterrati del senese e quest'anno il bianco delle stradine di collina e campagna sarà, per una volta, meno bianco del contorno. Ci ha pensato quella bufala di vento - per genesi, non per effetti – che è il Burian, a fare lo scherzetto, sempre che la pioggia prevista dal meteo non ne faccia un altro e cancelli del tutto il candore di uno scenario ancor più magnifico del solito. Uno spettacolo per gli appassionati da divano, un po' meno per i corridori che si troveranno a galleggiare in un fiume di colori che va dall'ocra al grigio, dal castagno alla Terra di Siena bruciata, che più che bruciata è bagnata, inzuppata, schizzata e quindi attaccata, a maglia e bici, a cerchi e faccia. E ancor più di un anno fa, quando la pioggia scendeva, schizzava, ma non abbastanza da infradiciare.

 

 

Forse come solo a Montalcino accadde. E lì erano strade bianche, ma non Strade Bianche, era Giro d'Italia, edizione 2010, nonostante gli scenari fossero simili, a tratti gli stessi. E lì erano volti diventati maschere, maglie diverse diventate uguali, differenze annullate dal fango, accentuate dal fango, un carnevale ciclistico, rovesciamento e ribaltamento di tutto. E lì era un Vincenzo Nibali per la prima volta in Maglia rosa, costretto ad annaspare e a inseguire un manipolo di cacciatori da palude guidati da due cacciatori d'anguille come Cadel Evans e Alexandre Vinokourov e un piccolo principe che se ne fregava altamente del candore delle vesti, Damiano Cunego.

 

 

"Le Strade Bianche sono la prova dell'esistenza di dio: il dio del ciclismo. E sono anche la prova dell'esistenza di almeno un santo: San Cristoforo, cui è delegata la protezione, se non la sopravvivenza, degli automobilisti e dei motociclisti, dei viaggiatori e dei viandanti, probabilmente anche dei corridori e dei suiveurs", scrive Marco Pastonesi in un bellissimo libro ("La leggenda delle strade bianche", Ediciclo editore) dedicato alle strade bianche, un "piccolo omaggio alla polvere e al sudore degli eroi a pedali".

 

E una Strade Bianche così come potrebbe essere, sarà la prova che questo dio e questo santo a volte si diletta a divertire i suoi fedeli, scherzando i suoi apostoli. Perché una corsa ha sempre qualcosa da dire, indipendentemente dal percorso, ma quando si corre sulle pietre o sullo sterro, quando “si dimentica il progresso e abbraccia la sua origine, quindi era un mondo prima del motore e di quello scuro e liscio scorrere senza sobbalzi che tutti hanno imparato a chiamare asfalto” (a dirla con Rino Negri e con il suo "Ciclismo nel mondo"), ecco che ha qualcosa da dire di più, di ulteriore, di ancor più magnifico.

 

Lo si vede ogni anno all'Eroica, nel Chianti più vero, e in quelle altre eroiche che ormai si sono sparse un po' in tutto il mondo; in quel verbo biciclettaro, più che ciclistico, in quella strana mistura di anime e di uomini, di appassionati di lunga data e di nuovi adepti anche fosse solo per un giorno, che alle ruote che scorrono lì dove la modernità aveva quasi preteso di non farle più scorrere. È un gesto di ribellione lo sterrato, un altro mondo, almeno ciclistico, che prende le forme di un piccolo mondo antico che però antico non è più, che è in realtà iper moderno, perché scenario nuovo e magnifico, terra di conquista che fa sognare, in quanto inconsueta e improbabile e proprio per questo unica.

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