Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk oggi davanti all'Europarlamento (foto LaPresse)

Ci piaccia o no in Europa siamo tutti un po' più soli

Matteo Scotto

Ai sostenitori dell'unità europea è richiesto oggi più che mai uno sforzo di realismo politico: accettare da una lato la solitudine volontaria degli Stati europei, e studiare allo stesso tempo con creatività meccanismi su come proseguire sulla via dell’integrazione portando a casa risultati concreti. 

Nell’ultimo Consiglio europeo, caratterizzato da un’aspettativa molto alta— troppo forse — verso decisioni risolutive in materia di migrazione, hanno vinto tutti. Oppure nessuno, che in fondo è la stessa cosa. Si è deciso di non decidere, “deciding not to decide”, strategia negoziale vecchia come il mondo che, al contrario di quanto si possa pensare, è una decisione forte e chiara, ma tutta in negativo. In altre parole, si tratta dell’ammissione congiunta di non voler deliberare in modo comunitario, per mancanza delle condizioni politiche necessarie, su problematiche la cui soluzione potrebbe, tra le varie opzioni, richiedere un’azione collegiale a livello europeo. Tutti i capi di Stato riuniti a Bruxelles avevano l’unica necessità di poter rientrare in patria e cantare vittoria. Così è stato. L’Italia — al di là di risultati concreti — doveva dare l’impressione di saper giocare in modo muscolare, cosa che ha fatto quando Conte ha minacciato di non accettare l’intere conclusioni del Consiglio europeo. La Cancelliera Merkel doveva dimostrare di fronte ai suoi alleati bavaresi della CSU di aver vinto la partita sui movimenti secondari, legittimando misure autonome per bloccare l’ingresso in Germania di migranti irregolari. Il Presidente Macron doveva portare a casa il successo sui centri di accoglienza e smistamento, più o meno supportati dall’Ue, e tuttavia da istituirsi rigorosamente nei paesi di primo approdo (Italia, Grecia, Spagna). Il gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca) più l’Austria, meno uniforme della narrativa più in voga, aveva l’urgenza di assicurare ogni decisione legata al ri-allocamento di persone su base consensuale, garantendosi un potere di veto. Tutti contenti quindi e tutto secondo i piani, tant’è che ognuno dei leader europei ha espresso grande soddisfazioni dal risultato del summit. Tocca a questo punto essere molto realisti. La decisione di non adottare risoluzioni comunitarie in materia di migrazione è naturale conseguenza delle composizioni delle maggioranza politiche di governo e delle opposizioni nei vari Stati membri, i quali sono soggetti, sulla migrazione anche i più dichiaratamente europeisti, a spinte sovraniste che diffidano da soluzioni compiutamente europee. Pare così quasi inutile se non deleterio forzare la mano nella direzione opposta, con l’aspirazione di poter gestire queste competenze, che sono al cuore della vita stessa degli Stati, come il mercato unico, vale a dire con metodi decisionali di naturale federale. Ad oggi nell’Unione, su politica esterna e interna, è molto saldo il consenso di voler procedere in un quadro intergovernativo, collaborando se e quando lo si ritiene necessario su progetti specifici e con il consenso di tutti. Giusto o sbagliato che sia, questo è lo status quo dell’integrazione europea e solo il tempo ci dirà se tale assetto sarà sostenibile sul lungo termine. Se non lo sarà, è probabile che il vento cambierà di nuovo. Fino ad allora, ai sostenitori dell’unità europea è richiesto un enorme sforzo di realismo politico: accettare da una lato la solitudine volontaria degli Stati europei, e studiare allo stesso tempo con creatività meccanismi su come proseguire sulla via dell’integrazione portando a casa risultati concreti.