Un anno di orrore in Sudan

Redazione

Come abbiamo raccontato sul Foglio, dal 15 aprile scorso l'indifferenza estrema del mondo occidentale nei confronti di una guerra contro i civili

Un anno fa è iniziata la guerra in Sudan, che chiamiamo “civile” ma è contro i civili; che chiamiamo “dimenticata”, rimproverando chissà chi: siamo noi che dimentichiamo. Secondo le Nazioni Unite, in Sudan è in corso uno “dei peggiori disastri umanitari della storia recente”, otto milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case (tre milioni soltanto nella capitale Khartoum), ci sono molte migliaia di morti (numeri ufficiali non ce ne sono), soltanto nel 2024 potrebbero morire, dice l’Onu, settecentomila bambini malnutriti, metà della popolazione ha bisogno degli aiuti per sopravvivere, aiuti che non ci sono – servono 2,7 miliardi di dollari soltanto quest’anno per provvedere a 24 milioni di persone, ma a disposizione ci sono 145 milioni di dollari, il 5 per cento – e che quando ci sono spesso sono inaccessibili.

 

 

Gli uomini delle Rapid Support Forces (Rsf), le forze paramilitari guidate dal generale Hemedti,   saccheggiano, stuprano, fanno pulizia etnica avanzando giorno per giorno alla conquista di terre e di potere: in Darfur la situazione è peggiore rispetto al 2005, quando c’erano le violenze dei janjaweed, si muore di fame e di esecuzioni di massa. L’esercito regolare del generale Burhan, che un anno fa stava negoziando con Hemedti per inglobare le Rsf,  ha perso il controllo della capitale e ha spostato il governo a Port Sudan. La Francia ha organizzato una conferenza per mobilitare gli aiuti umanitari; il Regno Unito sta introducendo delle sanzioni con le Rsf; i paesi della regione cercano di sostenere o l’una o l’altra parte, ma del popolo non si curano. Soltanto i sudanesi si occupano di se stessi, come possono: la solidarietà è indefessa e commovente, ma questa straordinaria rete di aiuti e welfare spontanei – si divide tutto il poco che c’è – non può reggere all’assenza di aiuti, né all’indifferenza. 

 

Il conflitto non è raccontato  anche perché i giornalisti internazionali non possono entrare nel paese e quelli locali non possono lavorare – la maggior parte dei media è chiusa e i reporter sono stati minacciati, arrestati e in alcuni casi uccisi. A gennaio la Reuters ha intervistato alcune profughe scappate in Ciad dal Darfur: su undici nove erano state stuprate. Abbiamo sempre definito la situazione in Sudan “in stallo”, mentre ogni iniziativa diplomatica di cessate il fuoco è fallita, ma oggi la descrizione non è più corretta: i paramilitari stanno vincendo, ammazzando, torturando, stuprando. Nathaniel Raymond, ricercatore di Yale che monitora il paese, dice che il Sudan “è morto”, ma il resto del mondo non  trova nemmeno il tempo “per scrivere un necrologio”. 

 

Un reportage di Cecilia Sala sul Foglio racconta la "guerra dei due cretini" in Sudan, cioè Hemedti e Burhan:  la comunità internazionale ha puntato su di loro perché sembrava la scelta più pratica e ha sbagliato. Dopo l’estromissione del dittatore di lungo corso Omar al Bashir nel 2019, Burhan e Hemedti hanno lavorato insieme per mandare all’aria una transizione democratica guidata dai civili, attuando un colpo di stato de facto nel 2021. La loro mossa all’epoca fu ampiamente tollerata dalle potenze esterne, compresi gli Stati Uniti, che si sono concentrati maggiormente sulla prospettiva che la leadership di Khartoum – a prescindere dalla loro buona fede antidemocratica – trovasse una specie di accordo politico con Israele nell’ambito  degli Accordi di Abramo.

 

"Ora il punto è: chi è in grado di fermare Burhan e Hemedti? La prima risposta è: non il mondo occidentale", scriveva un anno fa Paola Peduzzi. E' andata esattamente così: a gennaio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a favore della chiusura della propria missione in Sudan. E' stata una resa di fronte a una brutalità inaudita,  una dichiarazione di impotenza, il sigillo all’assenza di una volontà di controllo e di mediazione che lascia i sudanesi in mezzo ad atrocità di cui abbiamo e avremo soltanto resoconti parziali, e già insostenibili. 

 

 

 

 

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