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Il dolore di chi torna

Israele è pronto ad accogliere gli ostaggi. I medici dicono: usciranno dal buio

Fabiana Magrì

Il cessate il fuoco scatterà domani mattina intorno alle 7, ora israeliana. A essere liberati prima forse 13 bambini e le donne. I dottori si preparano ad accoglierli: "Ci prepariamo a questo momento da sei settimane"

Tel Aviv. Il Qatar ha annunciato che il cessate il fuoco scatterà domani mattina alle 7 (ora di Israele). E che saranno 13 i bambini e le donne che Hamas dovrebbe rilasciare per primi, alle 16. L’ufficio del primo ministro israeliano ha confermato di aver ricevuto un elenco “iniziale” di nomi. Con cautela, il premier Benjamin Netanyahu ha detto di “sperare” di liberare gli ostaggi. Ha aggiunto che l’impresa “non è senza sfide” e che, una volta portata a termine questa prima fase, resta l’impegno per far uscire anche tutti gli altri. Secondo il Wall Street Journal, una delle falle nei negoziati è imputabile al coinvolgimento della Croce Rossa preteso da Israele ma respinto da Hamas. I primi hanno chiesto che sia l’organizzazione umanitaria a ricevere gli ostaggi mentre la fazione palestinese vuole consegnarli direttamente all’Egitto. Israele ha poi espresso la necessità che la Cri  abbia accesso ai prigionieri che resteranno a Gaza. Clausola che dovrebbe essere superflua, visto che l’accesso alle cure è già previsto de iure dal diritto internazionale umanitario. Ma Hamas, che non l’ha permesso finora e  pare restare sulle sue posizioni. La mancanza di informazioni sulle condizioni di salute degli ostaggi e l’incertezza su chi sta per tornare a casa si fanno tortura psicologica per le famiglie.

Le sfide che Israele deve affrontare per ricomporre il suo tessuto umano sfibrato dalle violenze inflitte da Hamas sono a lungo termine. Ma il paese non intende farsi trovare impreparato. “È un evento senza precedenti. Ci muoviamo in un territorio inesplorato. Il trauma è personale, famigliare e nazionale. Scriveremo un nuovo manuale di letteratura medica e psicologica per qualcosa che non si è mai verificato prima”, spiega Orna Dotan, coordinatrice della squadra di resilienza del comitato delle famiglie degli ostaggi e delle persone scomparse. “Ci prepariamo a questo momento da sei settimane”, assicura Hagai Levine, a capo dell’équipe medica. Hanno raccolto informazioni sulla salute di ciascun ostaggio. Hanno collaborato con i medici di base. In ogni momento di questo dramma nazionale bisogna ricordare che felicità e dolore restano due facce della stessa moneta. Il comitato delle famiglie, con il ministero della salute e gli ospedali israeliani, si è preparato a immaginare e affrontare il maggior numero possibile di scenari. “I tre princìpi guida, spiega il medico, sono professionalità, personalizzazione e pazienza”. La professionalità nasce dallo studio della letteratura esistente. La personalizzazione è necessaria perché ciascun individuo avrà avuto un trascorso unico e diverso dagli altri. La pazienza riguarda la capacità dei medici di saper aspettare, di non voler trattare tutte le problematiche insieme ma a piccoli passi, stabilendo le priorità. Levine ha parlato personalmente con gli israeliani liberati nelle scorse settimane, per capire come prepararsi al meglio quando torneranno gli altri. Il passaggio dalla cattività alla libertà sarà esso stesso traumatico e Dotan e Levine, in un briefing con la stampa a cui ha partecipato il Foglio, cercano di far immaginare questa complessità: “Il rilascio potrebbe avvenire attraverso più persone di Hamas. Poi forse attraverso più medici della Croce Rossa. Probabilmente gli ostaggi saranno consegnati ai medici militari israeliani, visto che ci troviamo in una zona di guerra”. 

Sperare nel meglio ma prepararsi al peggio è l’indicazione rivolta al personale di tutti i centri medici nazionali coinvolti nella delicata missione di ricevere i prigionieri liberati. Sarà molto importante prestare attenzione a ogni esigenza. C’è chi potrebbe avere sviluppato problemi ai denti, alla vista, all’udito e quindi aver bisogno di protesi, occhiali, apparecchi acustici. Dai dati raccolti risulta che almeno un terzo degli ostaggi ha bisogno di cure croniche. “A che livello sarà il glucosio dei diabetici? Forse hanno subìto complicazioni gravi, magari sono diventati ciechi”, ragiona il dottore. E snocciola altre possibili casistiche: “Alcuni erano gravemente feriti, ad altri erano stati tagliati degli arti. Non sappiamo se le ferite da arma da fuoco siano state curate o si siano infettate”. 

Questa è solo una minima parte della gigantesca missione di recupero. L’aspetto sociale è altrettanto cruciale. “Dovremo capire dove andranno a vivere gli ostaggi usciti dall’ospedale”,  dice Dotan. “Alcuni non hanno più una casa. I genitori di Avigail Idan, 3 anni, sono stati assassinati. Chi si sarà presa cura di lei in prigionia? Chi lo farà quando sarà liberata? E’  possibile che in queste settimane abbia sviluppato un legame affettivo o di dipendenza con chi si è preso cura di lei. Se la bambina dovrà separarsene, sarà un altro trauma. Come quello delle famiglie che di certo saranno divise, tra i figli e le madri che torneranno a casa e i padri che resteranno a Gaza”, sottolinea la terapeuta.

Le famiglie, a loro volta andranno aiutate. Le loro aspettative, ridimensionate. Devono essere pronte ad affrontare il rientro a casa di persone in stato post traumatico, con incubi la notte, attacchi di panico e ogni genere di reazione. “Dobbiamo essere pazienti, nel breve e nel lungo termine. E i media, si raccomandano i dottori, dovranno essere molto comprensivi. Al centro, restano i diritti umani. Ci sono storie di violenze e umiliazioni subite che non tutti si sentono di condividere con chiunque”. Il dilemma è etico ma non dicotomico, secondo Levine e Dotan. “Per tutti gli ostaggi tornati liberi arriva il momento in cui, loro per primi, vorranno parlare. Sanno di custodire informazioni fondamentali per salvare gli altri. Ma è importante che non si sentano forzati. Tutti, ciascuno per molti validi motivi, vorranno ricevere informazioni da loro. È solo una questione di equilibrio tra tempi, luoghi e situazioni.” Non uno sprint. Più una maratona. Anzi un triathlon.