La pace giusta è il diritto di difendersi. Mattarella sì, Bergoglio nì

Claudio Cerasa

La differenza tra il pacifismo giusto di Baerbock che sostiene il diritto a difendersi e il pacifismo farlocco della bandiera bianca. Decidere 

Che cosa intendono esattamente i pacifisti, oggi, con la parola pace? Annalena Baerbock è una delle creature politiche più affascinanti che vi siano in circolazione in Europa. È una donna, è di sinistra, è un’ambientalista, è una pacifista, è un’europeista, è un’amante dei diritti umani e negli ultimi giorni è riuscita a ricordare, parlando di medio oriente, una verità non sempre scontata a sinistra: essere a favore della pace, dinanzi a quello che è successo in Israele, significa molto semplicemente dire due parole: “Mai più”. Qualche giorno fa, il 24 ottobre, Baerbock ha partecipato al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e in quell’occasione, parlando della situazione in medio oriente, ha usato parole importanti. Parole nette. Parole che sarebbe stato bello ascoltare per esempio ieri durante le manifestazioni pacifiste che vi sono state in Italia. Pace e disarmo, già. “Vi parlo – ha detto Baerbock – come ministro degli Esteri di un paese che ha la responsabilità storica del peggior crimine che si possa immaginare, il crimine commesso dalla Germania nazista: la Shoah – l’omicidio sistematico di sei milioni di ebrei, con l’obiettivo di sradicare la vita ebraica dall’Europa. Mai più. Per me, come tedesco, ciò significa che non avremo pace sapendo che i nipoti dei sopravvissuti all’Olocausto sono ora tenuti in ostaggio dai terroristi a Gaza. Per la Germania, la sicurezza di Israele non è negoziabile. Come ogni altro stato al mondo, Israele ha il diritto di difendersi dal terrorismo nel quadro del diritto internazionale”.

  

Pochi giorni prima Baerbock, riflettendo sul tema del cessate il fuoco in medio oriente, aveva aggiunto un altro tassello al suo ragionamento: “Non possiamo contenere la catastrofe umanitaria se il terrorismo a Gaza continua”.

 

Le parole di Baerbock sono importanti da inquadrare perché ci permettono di smascherare un’impostura grave emersa con forza negli ultimi mesi dinnanzi alle guerre scoppiate a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e a seguito dell’attentato sanguinario compiuto da Hamas in Israele. In entrambi i casi, gli sventolatori seriali di bandiere arcobaleno con il simbolo della pace hanno sostenuto, con gradazioni e sfumature diverse, che l’unica pace giusta, l’unica pace possibile, l’unica pace auspicabile è quella che passa non dalla difesa dell’aggredito ma dal disarmo unilaterale dell’occidente.

  

Se la Russia attacca l’Ucraina, la colpa non è di un macellaio che usa metodi terroristici contro un paese sovrano per riaffermare il mito della grande Russia. La colpa è di chi ha fatto sentire alla Russia il fiato sul collo dell’occidente (la Nato) e di chi continua a rifornire di armi l’Ucraina (i paesi della Nato) per provare a difendere l’aggredito dall’aggressore. Allo stesso modo, cambiando quadrante, la colpa, se si osserva la guerra in medio oriente, non è dei terroristi che hanno rastrellato, come ai tempi del ghetto di Varsavia, le case degli ebrei in Israele, ma è dell’occidente che avendo provocato i palestinesi ora non deve fare altro che spingere chi vuole reagire, ovvero Israele, ad abbassare le armi e a sventolare bandiera bianca.  Il nuovo pacifismo, che finge di essere un pacifismo della non violenza ma non è altro che un pacifismo del disarmo unilaterale e dunque della violenza, della violenza di una parte alla quale occorre contrapporre la guancia non violenta dell’altro, non prevede la possibilità che l’aggredito possa difendersi dall’aggressore. E in questa nuova visione del mondo l’occidente è colpevole per definizione. Per la sua storia. Per la sua prepotenza. Per la sua arroganza. Per, come direbbe Papa Francesco, “abbaiare” alle porte di paesi come la Russia.

 

Papa Francesco, già. Il 7 ottobre, il giorno dell’attacco di Hamas, i Patriarchi e i capi delle Chiese di Gerusalemme hanno “condannato inequivocabilmente” gli atti che prendono di mira i civili, gli atti commessi in Israele, ma nella dichiarazione congiunta si è scelto di non nominare Hamas e di chiedere, contestualmente all’attacco subito di Israele, la “cessazione di tutte le attività violente e militari che arrecano danni sia ai civili palestinesi sia a quelli israeliani”. L’ambasciata israeliana presso la Santa Sede ha affermato che la dichiarazione riflette una “ambiguità linguistica immorale” della chiesa. E ha notato che “dalla lettura” della nota “non c’è modo di capire cosa sia successo, chi siano stati gli aggressori e chi le vittime”. Una settimana dopo, i Patriarchi, seguiti dal Papa, hanno rilasciato una seconda dichiarazione, con la quale, in modo perentorio, hanno chiesto il “rispetto del diritto umanitario a Gaza”, senza far riferimento ai crimini di guerra commessi da Hamas a Gaza, con i civili utilizzati come scudi umani.

 

Il ministro degli Esteri israeliano, Eli Cohen, ha rimproverato il Papa per non avere inserito alcun riferimento al fatto che Israele abbia diritto a difendersi, che Hamas abbia la responsabilità primaria per la morte dei civili usati come scudo umano e ha chiarito ciò che Israele vorrebbe dal Vaticano: “Una condanna inequivocabile e chiara degli atti terroristici omicidi perpetrati dai terroristi di Hamas che hanno causato gravi danni a bambini, donne e anziani solo perché sono ebrei e israeliani” (anche se in realtà nel suo primo intervento pubblico sulla questione Francesco ha evocato il diritto a difendersi: “È diritto di chi è attaccato difendersi”, udienza generale dell’11 ottobre). Più in generale, però, non vi è, come ha notato Matteo Matzuzzi sul Foglio, nessuna drammatica rottura sul tema. Vi è qualcosa di più sottile. Vi è solo un progressivo allineamento a quella che è sempre stata la linea politica del Vaticano sul dossier relativo al conflitto nel vicino oriente: due popoli, due stati e opposizione totale all’occupazione dei territori attribuiti al controllo dell’Autorità nazionale palestinese.

  

Ma il fatto è che l’equidistanza mostrata in alcuni passaggi dal Vaticano in medio oriente (in alcuni passaggi, non sempre, perché per esempio il Patriarca di Gerusalemme ha usato frasi forti contro Hamas: “Il terrorismo islamico? C’è qualcosa nel mondo islamico che nutre un pensiero di questo genere. Lo abbiamo visto in Siria e Iraq. Pensavamo di non vederlo qui ma invece è accaduto. C’è certamente una dimensione di odio profondo da parte di Hamas nei confronti di Israele e tutto ciò che è ebraico. Ma questo non è giustificabile. Il dolore dei palestinesi non può giustificare una cosa del genere”) non è un caso isolato. Ma è lo specchio perfetto di un certo pacifismo moderno: se vieni attaccato devi alzare bandiera bianca. Vale per il medio oriente e vale anche per l’Ucraina. Dove, come ha notato il Wall Street Journal, l’insistenza del Papa nel definire il problema come la guerra stessa – e non come l’ingiustificata invasione di un vicino da parte di Vladimir Putin – e nell’evidenziare responsabilità da entrambe le parti “si suggerisce un’equivalenza morale tra aggredito e aggressore”.

  

Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, quando ad agosto Francesco ha detto ai giovani cattolici russi riuniti a San Pietroburgo che erano gli eredi del “grande e illuminato impero russo incarnato da Pietro il Grande e Caterina la Grande”, usando più o meno le stesse parole con cui Putin ha giustificato l’invasione in Ucraina, ha affermato che le parole del Papa sono state “dolorose e difficili per il popolo ucraino, che attualmente sta sanguinando nella lotta per la propria dignità e indipendenza”. E lo stesso imbarazzo diplomatico, se così si può dire, il Vaticano lo ha mostrato anche in questi anni rispetto alle azioni di Pechino, con i lunghi silenzi dinanzi agli oltraggi compiuti dalla Cina verso gli uiguri. Potrebbe apparire un’eresia mettere a confronto il pacifismo modello Baerbock con il pacifismo modello Francesco.

 

Ma per capire all’interno di quale spettro sventolano oggi le bandiere della pace occorre fissare questi due punti. Da una parte c’è chi considera il pacifismo legittimo solo se si sceglie di schierarsi dalla parte dell’aggredito. Dall’altra parte c’è chi considera il pacifismo efficace solo se si chiede all’aggredito di sventolare bandiera bianca di fronte all’aggressore. E nel caso specifico, nel caso di Israele, chiedere a un paese aggredito oggi di accettare un cessate il fuoco, come fa da giorni il segretario dell’Onu Guterres, significa di fatto premiare la strategia dell’uccisione di civili dei terroristi, negando allo stesso tempo a uno stato riconosciuto dalle Nazioni Unite la stessa capacità di difendersi di cui gode ogni altro paese”. La pace giusta – ha detto Sergio Mattarella, capo dello stato, esattamente un anno fa nel corso di un convegno promosso dalla Comunità di Sant’Egidio e dedicato proprio ai temi della pace – è quella che non ignora il diritto a difendersi e non distoglie lo sguardo dal dovere di prestare soccorso a un popolo aggredito”. La differenza tra una pace vera e una farlocca, in fondo, è tutta qui. È nella capacità di capire che il pacifismo della bandiera bianca, oggi, è quello di chi vuole condannare l’aggressore disarmando l’aggredito. Viva Baerbock. Viva Mattarella.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.