Né con Hamas né con Tsahal. La Chiesa torna alla politica di sempre: “Basta occupazione israeliana”

La lettera del cardinale Pizzaballa alla diocesi di Gerusalemme: "I continui pesanti bombardamenti che da giorni martellano Gaza causeranno solo morte e distruzione"

Matteo Matzuzzi

Intanto Papa Francesco, in un nuovo libro, definisce la Guerra del Golfo "una vera disgrazia, per non dire una delle peggiori crudeltà" e l'Isis è originata da "una sfortunata scelta occidentale"

Roma. Il vaticanista John Allen, tra i più attenti osservatori delle questioni d’Oltretevere, l’aveva previsto: man mano che il tempo passa, la posizione della Santa Sede e più in generale della Chiesa si avvicinerà a quella della causa palestinese, distanziandosi dai programmi del governo israeliano. Nessuna rottura drammatica, ma un progressivo allineamento a quella che è sempre stata la linea politica di Roma sul dossier relativo al conflitto nel vicino oriente: due popoli, due stati e opposizione totale all’occupazione dei territori attribuiti al controllo dell’Autorità nazionale palestinese (o di quel che ne rimane). Passata la condanna per il massacro del 7 ottobre – chiara nei toni e immediata nei tempi – l’attenzione è riservata a quanto accade a Gaza. Gli appelli del Papa vanno in questa direzione, soffermandosi sulla richiesta di pensare alla popolazione civile sottoposta ai bombardamenti dell’aviazione israeliana e privata di generi di prima necessità. Lo stesso segretario di stato, il cardinale Pietro Parolin, ribadisce la necessità di fermare i carri armati e di pensare a chi nella Striscia ci vive, puntando poi a riprendere il filo del negoziato per applicare la risoluzione del 1947 che prevedeva la coabitazione delle due entità statali su quel lembo di terra stretto fra il Giordano e il Mediterraneo. A chiarire che la posizione è questa ci ha pensato il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, che pure era stato il più netto nello scagliarsi contro Hamas per la strage d’inizio ottobre, arrivando a individuare nella politica del gruppo terroristico che governa Gaza un elemento di odio verso tutto ciò che è ebraico, andando dunque ben oltre la mera ostilità nei confronti della presenza dello stato israeliano. Martedì, però, Pizzaballa ha scritto una lettera alla diocesi dove sposta l’attenzione sul trattamento riservato ai civili nella Striscia, aggiungendo  riflessioni che esulano dal particolare momento che si sta vivendo. La premessa è quella d’obbligo: “La coscienza e il dovere morale mi impongono di affermare con chiarezza che quanto è avvenuto il 7 ottobre scorso nel sud di Israele, non è in alcun modo ammissibile e non possiamo non condannarlo. Non ci sono ragioni per una atrocità del genere. Sì, abbiamo il dovere di affermarlo e denunciarlo”. Poi il patriarca dice altro: “La stessa coscienza, tuttavia, con un grande peso sul cuore, mi porta oggi ad affermare con altrettanta chiarezza che questo nuovo ciclo di violenza ha portato a Gaza oltre cinquemila morti, tra cui molte donne e bambini, decine di migliaia di feriti, quartieri rasi al suolo, mancanza di medicinali, acqua, e beni di prima necessità per oltre due milioni di persone. Sono tragedie che non sono comprensibili e che abbiamo il dovere di denunciare e condannare senza riserve. I continui pesanti bombardamenti che da giorni martellano Gaza causeranno solo morte e distruzione e non faranno altro che aumentare odio e rancore, non risolveranno alcun problema, ma anzi ne creeranno dei nuovi. E’ tempo di fermare questa guerra, questa violenza insensata”. Quindi, l’affondo: “E’ solo ponendo fine a decenni di occupazione, e alle sue tragiche conseguenze, e dando una chiara e sicura prospettiva nazionale al popolo palestinese che si potrà avviare un serio processo di pace”. 

 

Se non si risolverà questo problema alla sua radice, non ci sarà mai la stabilità che tutti auspichiamo. La tragedia di questi giorni deve condurci tutti, religiosi, politici, società civile, comunità internazionale, ad un impegno in questo senso più serio di quanto fatto fino ad ora. Solo così si potranno evitare altre tragedie come quella che stiamo vivendo ora”, ha detto Pizzaballa. Parole sulla “occupazione” e relative “tragiche conseguenze” che non potranno di certo far piacere all’Ambasciata d’Israele presso la Santa Sede, che già il giorno dopo il comunicato dei Patriarchi e dei Capi delle Chiese di Gerusalemme aveva denunciato “l’immorale ambiguità linguistica” contenuta nel documento. E’ la conferma, dunque, di una distanza che c’è ma che non è nuova. Distanza che c’è anche rispetto alla linea portata avanti da diverse cancellerie occidentali e che si approfondisce ancor di più con la politica degli Stati Uniti. 

 

Su questo punto ha detto la sua anche il Pontefice, nel libro fresco di stampa Non sei solo (Salani editore). Francesco, rispondendo alle domande di Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, parla del “fallimento dell’occidente nel suo tentativo di importare la propria tipologia di democrazia in certi paesi con una cultura, non dico tribale, ma di stampo simile”. E fa degli esempi, assai vicini nella storia: “Pensiamo alla Libia, che pare possa essere condotta soltanto da personalità molto forti come Gheddafi. Un libico mi ha detto che un tempo avevano un solo Gheddafi, mentre ora ne hanno cinquantatré. La Guerra del Golfo è stata una vera disgrazia, per non dire una delle peggiori crudeltà. Saddam Hussein non era certo un angioletto, anzi, ma l’Iraq era un paese abbastanza stabile. Attenzione: non sto difendendo Gheddafi o Hussein. Ma che cosa ha lasciato la guerra? L’anarchia organizzata e altra guerra. Quindi ritengo che non dobbiamo esportare la nostra democrazia in altri paesi, bensì aiutarli a sviluppare un processo di maturazione democratica secondo le loro caratteristiche. Non fare una guerra per importare una democrazia che i loro popoli non sono in grado di assimilare. Ci sono paesi che hanno un sistema monarchico e che probabilmente non accetteranno mai una democrazia, ma certo si può contribuire a fare in modo che ci sia maggiore partecipazione. In ogni caso, mi ritengo ignorante in quanto a politica internazionale, ma credo che alla base della comparsa dell’Isis ci sia una sfortunata scelta occidentale”. E a proposito della Guerra del Golfo del 2003, il Papa parla della fallita mediazione vaticana: Giovanni Paolo II “incaricò il cardinale Roger Etchegaray di parlare con Hussein, che espresse la sua disponibilità ad accettare certe condizioni. E tramite l’allora nunzio negli Stati Uniti, il cardinale Pio Laghi, inviò una lettera al presidente dell’epoca, George Bush, il quale, pur avendola ricevuta, non la aprì nemmeno e disse solo: ‘La decisione è già stata presa’”. In ogni caso, da scartare l’idea che di mezzo ci siano le religioni, a giudizio di Jorge Mario Bergoglio: “E’ vero che l’ideologizzazione dell’elemento religioso, quello che in Africa si chiama islam radicale, è un problema e rappresenta una perversione della religiosità perché l’islam, in verità, è una religione di pace e la maggior parte dei suoi membri sono pacifici. Come dicono loro, o si è terroristi o si è musulmani. Che poi, detto tra parentesi, il fondamentalismo lo troviamo in tutte le religioni. Inoltre, caso strano, nei paesi africani in cui non sono filtrate organizzazioni come l’Isis, di solito la convivenza è molto buona”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.