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l'analisi

Quanto è complicato il calcolo di Macron in una Francia mobilitata

Jean-Pierre Darnis

La difficile convivenza tra la comunità ebraica e quella musulmana nella società francese. E le incognite per il presidente sul versante ordine pubblico

Il viaggio di Emmanuel Macron in medio oriente ha testimoniato la vicinanza della Francia a Israele e la volontà del presidente francese  di contribuire ai negoziati per la liberazione degli ostaggi e per la  pacificazione della zona. Da questo punto di vista si può dire che Macron tenta di riprendere il filo di una politica estera francese che, fino a Jacques Chirac, era stata attenta a mantenere canali aperti con tutte le componenti della regione – le presidenze successive avevano di fatto accantonato la questione palestinese. La proposta di Macron di mobilitare un coalizione internazionale come quella creata per contrastare  lo Stato islamico per combattere Hamas è un’iniziativa interessante: l’operazione di terra di Tsahal a Gaza si annuncia estremamente difficile e controversa, ma un’azione internazionale contro Hamas, con un coinvolgimento metodico dei servizi e del controterrorismo, potrebbe avere risultati concreti ben migliori.

L’attacco contro Israele del 7 ottobre segna un brutto risveglio per Parigi. Il primo colpo è stato il rapimento o la scomparsa di alcuni cittadini francesi o con doppia nazionalità, un dramma sul quale Macron deve rendere conto attraverso negoziati con mediatori in grado di ottenere le liberazioni da parte di Hamas – come il Qatar – ma anche presentandosi in Israele per esprimere solidarietà. Ma il conflitto ha già investito la sfera francese  dal 13 ottobre con l’omicidio di Samuel Bernard, il professore ucciso dai colpi di un giovane radicalizzato. Un doppio orrore si è stabilito quindi in Francia, quello della percezione lontana dei massacri ma anche quello  più intimo dell’ennesimo atto di terrorismo in Francia, un brutto déjà vu che richiama l’uccisione di Samuel Paty nel 2020.

Man mano che la situazione a Gaza si inaspriva, c’è stata una grande spaccatura interna. In Francia ci sono sia la comunità ebraica più importante d’Europa (600 mila persone) sia circa cinque milioni di musulmani, spesso di origine nord-africana, che rappresentano un notevole bacino di sostengo alla causa araba, e quindi palestinese, soprattutto quando questo viene presentata come conflitto religioso, il che è appunto l’operazione che i Fratelli musulmani e  Hamas hanno sempre cercato di realizzare. Questa specifica sociologia francese conduce a  forme di mobilitazione particolari. Per esempio, la sinistra intellettuale francese si trova spesso vicino alle posizioni della sinistra israeliana: c’è il sostegno a Israele ma una grande critica al governo e all’operato di Benjamin Netanyahu. In generale, esistono politici vicini alle comunità ebraiche, come la presidente dell’Assemblea nazionale Yael Braun Pivet, il cui nonno ebreo polacco si rifugiò in Francia per scappare al nazismo, e come il segretario dei Républicains, Eric Ciotti, eletto a Nizza in un territorio dove la presenza ebrea è molto forte. 
 

A sinistra ci sono state molte manifestazioni a favore di Gaza. In Francia esiste una diffusa opinione pubblica relativamente bilanciata che condanna il terrorismo di Hamas richiamando al rispetto dei  palestinesi, ma stiamo assistendo a un tentativo di importazione del conflitto da parte di Jean-Luc Mélenchon che rifiuta di qualificare come terrorismo l’operato di Hamas e   vuole apparire come  il paladino della causa palestinesi. Così facendo Mélenchon spera di ripetere il risultato ottenuto alle ultime presidenziali quando aveva conquistato una parte importante del voto delle comunità musulmane. La contrapposizione violenta dovrebbe anche avvantaggiare chi ha sempre sfruttato le paure, cioè Marine Le Pen.

 

Macron deve interpretare una delicata partita di conciliazione fra il suo posizionamento internazionale e quello interno. Nell’attuale fase, è un problema, ma bisogna anche tenere a mente che la sociologia estesa di una Francia che raggiunge comunità al di là delle proprie frontiere rappresenta un forte potere normativo e pacificatore se riesce ad apparire come un luogo democratico di compromesso o perlomeno di convivenza fra alcune polarizzazioni nazionaliste e religiose.