(foto Ap)

lo strano caso

Il reporter filonazi del New York Times

Luciano Capone

A Gaza, dopo il più grande massacro di ebrei dopo la Shoah, il Nyt si avvale del lavoro di Soliman Hijjy, in precedenza licenziato perché inneggiava a Hilter e all'Olocausto. "Aderisce agli standard ed è imparziale", dice il giornale liberal

Dopo il pogrom del 7 ottobre di Hamas, con il massacro di 1.400 civili e il rapimento di oltre 200, al New York Times devono aver pensato: chi abbiamo a Gaza per coprire la guerra? Ma sì, quel reporter palestinese che avevamo licenziato perché fan di Adolf Hitler. Bene, riassumiamolo!

 

È successo, infatti, che alcuni media vicini a Israele e alla comunità ebraica, come la rivista Algemeiner Journal e la ong HonestReporting, si sono accorti che in questi giorni a seguire per il New York Times il conflitto tra Hamas e Israele è tornato Soliman Hijjy. Si tratta di un videoreporter che appena un anno fa era stato segnalato da HonestReporting per le sue uscite pubbliche apertamente antisemite.

 

Nel 2012, Hijjy aveva elogiato Hitler in un post su Facebook, scrivendo: “Quanto sei grande, Hitler”, condividendo un meme del Führer nazista che si fa un selfie. Nel 2018, ha pubblicato sui social network un post in cui scriveva, con una sua foto di accompagnamento, di essere “in uno stato di armonia come lo era Hitler durante l’Olocausto”. Nel 2020, il giornalista ha giustificato i crimini di Hamas contro i civili israeliani descrivendo il lancio indiscriminato di razzi come una forma di “resistenza”. Il Nyt, dopo che scoppiò il caso, decise di interrompere la collaborazione con Hijjy. Ora però ci ha ripensato. La notizia è stata rilanciata da molti quotidiani israeliani e anche dall’ambasciatore d’Israele all’Onu Gilad Erdan: “Il New York Times ha appena riassunto un NAZI. Abbiamo visto tutti come il Nyt abbia immediatamente ripetuto a pappagallo le bugie di Hamas riguardo all’ospedale al-Ahli (al quale Hijjy ha contribuito)”.

 

Ai giornali della destra non è parso vero. Alla richiesta di spiegazioni di Fox News, il Nyt ha fornito una risposta surreale: “Abbiamo esaminato i post problematici sui social media del signor Hijjy quando sono venuti alla luce per la prima volta nel 2022 e abbiamo intrapreso una serie di azioni per garantire che comprendesse le nostre preoccupazioni e potesse aderire ai nostri standard se avesse voluto svolgere un lavoro freelance per noi in futuro”, ha detto un portavoce del giornale liberal. “Il signor Hijjy ha seguito questi passi e ha mantenuto elevati standard giornalistici. Ha svolto un lavoro importante e imparziale con grande rischio personale a Gaza durante questo conflitto”. Il Nyt non ha poi risposto alle altre domande su quali siano di preciso questi “standard” e come potesse coprire in modo “imparziale” il conflitto tra Hamas e Israele un giornalista che elogiava Hitler e l’Olocausto.

 

La vicenda imbarazzante dell’imparziale collaboratore antisemita arriva insieme alle polemiche sulla copertura dell’esplosione all’ospedale al Ahli di Gaza, molto probabilmente dovuto alla caduta di un razzo sparato dai miliziani islamisti, e che invece il giornale aveva attribuito a un bombardamento di Israele affidandosi alla versione di Hamas. Nei giorni successivi, e dopo molte pressioni dell’opinione pubblica, il New York Times si è scusato per come aveva inizialmente dato la notizia dell’attacco all'ospedale di Gaza: “Le prime versioni della copertura – e l’importanza che ha ricevuto nei titoli, negli avvisi di notizie e nei canali dei social media – si basavano troppo sulle affermazioni di Hamas e non chiarivano che tali affermazioni non potessero essere immediatamente verificate”, ha scritto la direzione del giornale. Quella copertura “ha lasciato ai lettori un’impressione errata su ciò che era noto e su quanto fosse credibile il resoconto”.

 

Da un lato, insomma, il New York Times ammette di aver fatto troppo affidamento come fonte su Hamas – spesso citato come “il ministero della Salute di Gaza”, manco fossero i bollettini di Brusaferro e dell’Istituto Superiore di Sanità – dall’altro, sostiene che per fare le verifiche “imparziali” sul campo si affida a un giornalista antisemita ed estimatore di Adolf Hitler. C’è, insomma, qualcosa che non torna, anche considerando gli standard di sensibilità della redazione del giornale sulle questioni che riguardano il razzismo e le minoranze.

 

Appena tre anni fa, il direttore della sezione “Opinioni” del giornale, James Bennet, fu costretto alle dimissioni per aver pubblicato un editoriale del senatore repubblicano Tom Cotton che, in sostanza, chiedeva l’intervento dell’esercito per fermare i saccheggi e le violenze che in quei giorni accompagnavano le proteste contro il razzismo. La pubblicazione di quell’articolo provocò le proteste dei lettori e una ribellione dei giornalisti del Nyt, scatenando anche un acceso dibattito.

 

A nulla valsero le spiegazioni di Bennet, che si era dichiarato contrario alle tesi di Cotton, precisando che la pubblicazione non rispecchiava la linea editoriale del giornale ma serviva a fornire ai lettori un punto di vista diverso. Niente da fare, neppure l’appello al Primo emendamento poteva valere come scriminante. Bennet dovette rassegnare le dimissioni: dando spazio a un senatore repubblicano di esprimere il proprio punto di vista politico l’aveva combinata grossa. Più grossa, evidentemente, di un “imparziale” giornalista che inneggia ai campi di sterminio nazisti.

 

Il paradosso è che il più grande massacro di ebrei dopo la Shoah sia stato un’occasione di rilancio per la carriera di un giornalista antisemita e filo Hamas. “Sembra – ha scritto Ira Stoll su The Algemeiner – che il New York Times abbia uno standard per assumere corrispondenti da Gaza che elogiano Hitler in tempo di pace, e uno standard diverso e più indulgente per assumere corrispondenti da Gaza che elogiano Hitler in tempo di guerra”.

 

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali