il fiume armeno

L'esodo dal Nagorno Karabakh per non tornare mai più

Micol Flammini

Come si stipano più di trent'anni di vita in una macchina? Si fanno scelte su tutto, anche sui propri morti. Le promesse dell'Azerbaigian, le paure dell'Armenia e l'esplosione 

Per scappare serve innanzitutto carburante e centinaia di persone erano in fila ieri a un distributore di Stepanakert, per fare rifornimento e lasciare il Nagorno Karabakh, la regione del territorio dell’Azerbaigian abitata prevalentemente da armeni, in cui lo scorso 19 settembre Baku ha lanciato un attacco armato. I danni sono stati gravi: sono morte almeno venti persone e i feriti sono centinaia, le vittime si aggiungono a quelle dei giorni scorsi. L’ospedale di Stepanakert, la città principale della regione, è in sofferenza, mancano medicine, manca sangue per le trasfusioni e i medici rimasti hanno chiesto di portare  i feriti in Armenia, la destinazione verso cui fuggono  i cittadini. I profughi sono più di diecimila, e il corridoio che collega il Nagorno Karabakh a quello di Erevan è un fiume di macchine, di valigie, di persone che portano via tutto il possibile, il minimo degli ultimi trent’anni di vita. Il Nagorno Karabakh è un ex stato separatista, che neppure l’Armenia riconosce, e dopo l’ultimo attacco azero si avvia verso la perdita della sua identità armena. L’Azerbaigian ha cercato di rassicurare la popolazione, ha promesso cibo, sostentamento e un’integrazione tranquilla. In pochi si fidano, nel Nagorno Karabakh si combatte dagli anni Novanta, e in pochi, pur provando a fidarsi, hanno voglia di sentirsi parte dell’Azerbaigian. Così chi ha potuto è fuggito dai villaggi, si è messo in marcia via da  Stepanakert prima che diventi per sempre Khankendi, il nome azero della città. Chi non fugge cerca i parenti, cerca di capire se sono sopravvissuti all’ultimo attacco, si rifugia dove può. Gli altri scorrono via lungo le strade rimaste aperte verso un paese che ha smesso di fidarsi del suo alleato storico, la Russia, e che cerca una nuova posizione internazionale.

 

Chi fugge sa che non tornerà indietro, non è un esodo momentaneo, ma un cambiamento definitivo, la fine di storie di famiglia legate tutte o quasi alle guerre del Nagorno Karabakh.  Come si stipa una vita intera in una macchina? Non si può, si fanno scelte, qualcuno si carica la lavatrice, qualcuno pensa invece ai propri morti. Nanar Poghosyan, una giornalista  che ha perso suo padre durante la prima guerra nella regione, ha raccontato dell’abitudine straziante, che si ripropone in questi questi giorni e a ogni attacco, di andare all’obitorio a cercare i propri parenti: chi non sente i famigliari da giorni, pensa che siano morti e capita che invece tra i defunti trovi amici, parenti altrui e si domandi cosa sia giusto fare, dire di averli visti senza vita in obitorio oppure lasciare che si speri ancora di ritrovarli un giorno. Chi invece i propri cari li ha persi  da tempo, non vorrebbe che le tombe finissero in mani azere.  L’Armenia ha detto che è pronta ad accogliere quarantamila famiglie, cinquemila persone hanno invece cercato rifugio presso le forze russe che sono in Nagorno Karabakh per il mantenimento della pace, questa è la loro funzione da anni, e  adesso sono incaricate di gestire le evacuazioni, che sono massicce, ma stanno andando, i corridoi per ora sono aperti.

Il numero di rifugiati è destinato a crescere, gli armeni della regione temono che l’Azerbaigian non rispetti le garanzie e che cominci la pulizia etnica. Il premier armeno, Nikol Pashinyan, ha detto che non ci sono minacce dirette per la popolazione, ma in pochi sono disposti a restare. Il rischio maggiore è per chi ha combattuto e viene ritenuto da Baku responsabile di crimini di guerra. L’Azerbaigian ha parlato di una possibile amnistia, ma alcuni funzionari hanno specificato che potrebbe non valere per tutti. Baku continua a parlare di garanzie di sicurezza, di cibo, rifornimenti, è intenzionato a mostrarsi affidabile per la comunità internazionale, ma dopo anni di guerra, di violenza, dopo l’ultimo attacco gli armeni preferiscono la fuga, l’addio al Nagorno Karabakh. 

 

Gli Stati Uniti hanno dato il loro sostegno all’Armenia, l’Unione europea sta tentando una mediazione, sperando di concludere un incontro tra il premier armeno Pashinyan e il presidente azero Aliyev, che potrebbe avvenire a Granada. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.