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In Spagna

I padri nobili del Ps spagnolo dicono a Sánchez: no ai catalani 

Guido De Franceschi

Per restare al governo il premier ha bisogno di Puigdemont, che chiede un’amnistia. Le pressioni di González & Co.

La prossima settimana toccherà al leader del Partito popolare spagnolo, Alberto Núñez Feijóo, in qualità di candidato del partito che ha ottenuto più voti nelle elezioni politiche dello scorso 23 luglio, cercare la fortuna in Parlamento – ovvero una maggioranza disposta a renderlo premier. Ma tutti, già da due mesi, si curano poco di lui e osservano invece le trattative intessute dal suo avversario, il premier socialista uscente Pedro Sánchez. Questo avviene perché il tentativo di Feijóo è destinato a fallire: non gli basterà l’appoggio dei sovranisti di Vox e di un paio di partitini per raggiungere la maggioranza. Il bersaglio è invece alla portata di Sánchez, che potrebbe continuare a governare grazie a una riedizione con qualche modifica della variegatissima “coalición Frankenstein” che lo ha sostenuto fin qui – il copyright di questa espressione è di un altro socialista, il prematuramente scomparso Alfredo Pérez Rubalcaba, che non apprezzava tanta disinvoltura nelle alleanze.

Di questa maggioranza patchwork farebbero parte, oltre a Sumar, che è la piattaforma della sinistra radicale guidata dalla leale vicepremier Yolanda Díaz, tutti i partiti regionalisti e indipendentisti disponibili su piazza. Ed è qui che Sánchez dovrà esibire le sue doti di ricamatore di accordi impossibili: paradossalmente gli è stato facile conservare l’appoggio di EH Bildu – ovvero degli eredi dell’indipendentismo basco più oltranzista e a suo tempo più contiguo al terrorismo – e quello di Esquerra republicana de Catalunya, che è un partito irriducibilmente separatista (ma forse non troppo…). Più complessa si annuncia invece la trattativa con il Partito nazionalista basco che, con la sopraffina tattica negoziale propria di uno dei più antichi partiti democristiani d’Europa, si tiene per ora sotto il pelo dell’acqua per alzare poi d’improvviso la posta a un metro dal traguardo.

Il vero osso duro, però, è Carles Puigdemont, il leader del movimento ultracatalanista Junts, i cui voti sono indispensabili perché Sánchez possa rimanere alla Moncloa. Dal 2017 l’ex capo del governo catalano e attuale europarlamentare Puigdemont è inseguito dalla giustizia spagnola per aver dichiarato illegalmente l’indipendenza della sua regione. E da allora vive in Belgio da esule/latitante – la definizione cambia a seconda del punto di vista. Com’era prevedibile, Puigdemont, che nella passata legislatura era all’opposizione, sta costringendo Sánchez a “pagare” un perù l’indispensabile appoggio dei sette deputati di Junts. Per soddisfare le sue richieste, il Parlamento ha già introdotto a spron battuto la possibilità di parlare in catalano, basco e galiziano nel Parlamento nazionale e ha anche chiesto a Bruxelles (per ora inutilmente) di permettere l’utilizzo ufficiale di queste tre lingue anche in ambito europeo. E, fino a qui, tutto bene: grandi polemiche da parte della destra, ma nessuna vera novità, visto che da anni in Spagna si litiga sul plurilinguismo un giorno sì e l’altro anche. In più, Sánchez dovrà anche sottostare a una ridda di “ricatti economico-finanziari” a favore della Catalogna e dei Paesi Baschi. Ma, anche qui, niente di strano: di concessioni di questo tipo ai regionalisti ne hanno sempre fatte tutti, a sinistra e a destra, in cambio del loro appoggio.

E allora qual è il vero, grande problema di Sánchez, nella trattativa con Puigdemont? Lo si riassume in una parola: amnistia. Il leader di Junts la pretende, per tornare in patria da uomo libero e per potersi di nuovo esibire, ma questa volta impunemente, in dichiarazioni unilaterali di indipendenza et similia. In passato Sánchez aveva escluso di concedere amnistie. Rimangiarsi quella promessa significherebbe calpestare una linea rossa e, se decidesse di farlo, su di lui si abbatterebbe l’ira funesta non solo del Partito popolare, di Vox (Amnistia? Apriti cielo!) e di moltissimi spagnoli, ma anche di qualche esponente del suo stesso partito. Per la verità, tra i parlamentari in servizio quasi nessuno manifesta a voce alta il suo disagio. Ma lo stesso non accade tra i padri nobili del Partito socialista.

Qualche giorno fa, Felipe González, che è stato premier dal 1982 al 1996, e Alfonso Guerra, che ne è stato il vice per nove anni, hanno approfittato della presentazione di un libro scritto dal secondo per criticare aspramente l’ipotesi di cedere a Puigdemont. “Non possiamo lasciarci ricattare da nessuno e meno che mai da una qualche minoranza in via di estinzione”, ha detto González. E Guerra ha aggiunto che concedere un’amnistia significherebbe “umiliare la generazione che realizzò la Transizione alla democrazia” (e della quale fanno parte lui e González). All’incontro era presente anche un altro socialista di peso, il presidente della Castilla-La Mancha Emiliano García-Page, che si è mostrato d’accordo con i due veterani del suo partito. Feijóo gli ha subito telefonato per provare ad allargare la crepa, ma lui gli ha risposto che delle negoziazioni per il governo se ne occupa Sánchez: grazie della chiamata, tante buone cose, click.

Per il premier attuale e (forse) futuro la fronda di González e Guerra non è una cosa da prendere sottogamba, così come non vanno sottovalutate le possibili conseguenze di spregiudicate concessioni agli indipendentisti. Ma va anche detto che se c’è una cosa che alla generazione della Transizione proprio non è riuscita con il buco è stata la gestione delle spinte secessioniste. La rischiosa scommessa di Sánchez è allora quella di replicare con Puigdemont la mossa normalizzatrice che gli è già riuscita con i baschi di EH Bildu. Certo, milioni di spagnoli sono ancora scandalizzatissimi quando vedono quelli che per decenni hanno giustificato il terrorismo di Eta trasformati, senza quasi passare dal via, nei più docili alleati del premier socialista. Ma quanti di loro possono dire che li preferivano quando non si sognavano neppure di sostenere un “governo spagnolo” ma applaudivano i loro “amici” che sparavano e mettevano le bombe?