(foto EPA)

Stelle indiane /1

Dalla canonica alla luna. Così l'India ha vinto lo spazio

Francesca Marino

Quello che ha portato al successo della missione di agosto è un programma spaziale nato in un piccolo villaggio del Kerala, con i razzi trasportati dai buoi. Ecco la sua storia

India, io sono arrivato! E anche tu!”. E’ questo il messaggio arrivato alla sala di controllo da Vikram, il modulo made in India allunato dolcemente il 23 agosto scorso (e che ieri con successo ha “saltato” sulla superficie lunare) e che ha provocato l’entusiasmo di tutta l’India. Dai ragazzini delle scuole che avevano offerto preghiere in templi, chiese e madrasa e che assistevano all’evento assieme ai loro insegnanti, agli studenti universitari che avevano organizzato dei Moon-party o di assistere all’allunaggio nelle sale comuni dell’università. Dagli impiegati ai negozianti che, assieme ai clienti, si sono riversati in strada a festeggiare ballando, sparando razzi e fuochi d’artificio come se fosse Diwali o una specialissima finale di cricket, distribuendo dolci ai passanti come se ciascuno di loro si fosse sposato o avesse appena avuto un bambino. O avuto un posto di lavoro. Hanno festeggiato a Benares quelli che avevano pregato Ganga-Mà, la madre Gange, perché Vikram allunasse sano e salvo e, dalla città più antica del mondo ancora abitata, portasse l’India fluttuando nel futuro. Si sono abbracciati quelli che in città e villaggi assistevano all’evento su maxi-schermi (o su ogni schermo disponibile) come se fosse un concerto rock. Tanto entusiasmo è, una volta tanto, più che motivato. Il modulo Vikram (battezzato così in onore del fondatore dell’Isro, l’Indian space research organisation, Vikram Sarabhai) e il rover Pragyan sono riusciti dove la Russia aveva fallito soltanto pochi giorni prima, e hanno reso l’India il quarto paese a realizzare un atterraggio controllato sulla luna dopo Stati Uniti, Cina e l’ex Unione sovietica. Il percorso indiano alla conquista della Luna è stato lungo: la navicella Chandrayaan 3, da cui si è staccato il modulo Vikram, ha raggiunto il satellite dopo 15 anni dal lancio della sua sorella maggiore, Chandrayaan 1. Ma non è il primo grande successo indiano: nel 2013 l’agenzia spaziale indiana aveva lanciato in orbita Mangalyaan, la “navicella per Marte”, entrata in orbita il 24 settembre 2014: anche in questo caso, l’Isro era stata la quarta agenzia spaziale a raggiungere il pianeta rosso, dopo Russia, America ed Europa e battendo sul tempo la Cina, la cui missione tentata due anni prima era fallita. Oltretutto Mangalyaan, come Chandrayaan, era stata interamente progettata da scienziati e ingegneri indiani, costruita in India da manodopera indiana con materiali di fabbricazione locale e aveva a bordo strumenti di rilevamento rigorosamente made in India. Autarchia nello spazio, e con budget molto contenuti. 

 

A vedere i risultati ottenuti e i moderni centri di ricerca spaziale, si riesce a stento a credere che il programma spaziale indiano, cominciato nel 1962, abbia preso le mosse in un minuscolo villaggio di pescatori in Kerala, Thumba. I pescatori, riuniti nella chiesa locale dal vescovo di zona, avevano dato la loro approvazione al progetto governativo e la loro disponibilità ad abbandonare il villaggio per essere trasferiti altrove. I primi studi, e i primi razzi lanciati in orbita dall’India nel 1963, sono nati là. Trasportati spesso da carri trainati da buoi, o dagli stessi scienziati che, in bicicletta, si spostavano da un laboratorio all’altro con sofisticatissime componenti tecnologiche nel cestello. I primi razzi sono stati assemblati nell’ex St Louis High School, che ora ospita un museo spaziale, e l’allora vescovo di Trivandrum, Peter Bernard Periera, aveva ceduto la canonica e la chiesa per le attività di due giovani scienziati che avevano scelto il villaggio per la sua posizione geografica, sulla linea magnetica dell’equatore: Vikram Sarabhai, il padre del programma spaziale indiano, e APJ Abdul Kalam, che diventerà poi presidente dell’India. Il lancio di Chandrayaan 3 è stato effettuato dal Satish Dhawan Space Centre di Sriharikota, una cittadina di mare nei pressi di Hyderabad: sono in pochi però a sapere che il successo della missione si deve anche al lavoro di più di cento signore, scienziate e ingegnere che hanno contribuito al lancio. E che la direttrice associata del progetto, Kalpana Kalahasti, è una donna così come la “rocket woman” dell’India, che era stata  direttrice della missione Chandrayaan 2 e vicedirettrice operativa di Mangalyaan: Ritu Karidhal Srivastava. 

 

Mentre scienziati, politici e media indiani battevano la grancassa dell’orgoglio nazionale molti, in particolare a occidente, si interrogavano sull’opportunità per una nazione come l’India, di perseguire un programma spaziale più o meno ambizioso. A certe critiche, tempo fa, l’ex direttore  dell’Isro K. Radhakrishnan rispondeva: “La domanda è stata posta milioni di volte negli ultimi cinquanta anni, e la risposta è e sarà sempre: sì. E’ necessario per trovare soluzioni ai problemi dell’uomo e della società”. E in effetti, dicono gli scienziati, il programma spaziale ha già contribuito allo sviluppo di tecnologie satellitari, di comunicazione e di telerilevamento ed è stato utilizzato per misurare i livelli delle acque sotterranee e prevedere i cambiamenti climatici nel paese, soggetto a cicli di siccità e inondazioni. 

 

Per quanto riguarda servizi igienici, elettricità ed acqua potabile, sono già oggetto da anni di una capillare campagna governativa che sta notevolmente migliorando le condizioni di vita in villaggi e piccoli centri, ma nessuno da questa parte del mondo ci fa caso. Perché quando si tratta di India il caro vecchio mito del buon selvaggio è sempre in agguato. Tenere l’India sullo scaffale alla voce “vacche sacre, Gandhi, la città della gioia e madre Teresa di Calcutta” è molto più rassicurante che vedere una nazione di oltre un miliardo di persone prendere la rincorsa per entrare nel ristretto club delle grandi potenze influenti, solo che con una politica estera ufficialmente da “non allineata”. Le disparità sociali ovviamente esistono, e sono in certi casi enormi, come negli Stati Uniti, in Russia o in Cina. E comunque, come fanno notare dall’Isro, il budget per la ricerca spaziale ammonta a una frazione decimale del budget nazionale contro le ben più consistenti cifre dedicate a infrastrutture e sviluppo. 

 

Mentre il budget dell’Isro nell’ultimo anno fiscale è stato inferiore a 1,5 miliardi di dollari, la dimensione dell’economia spaziale privata indiana è già di almeno 6 miliardi di dollari e si prevede che triplicherà entro il 2025. Grazie agli investimenti stranieri, l’India intende quintuplicare la propria quota del mercato globale dei lanci nel prossimo decennio. Non solo. New Delhi è anche in attesa della sua prima missione verso la Stazione spaziale internazionale l’anno prossimo, in collaborazione con gli Stati Uniti. E mentre l’Isro lavora al lancio di un osservatorio solare chiamato Aditya-L1 e a un satellite per l’osservazione della Terra, continuano i preparativi per la missione Gaganyaan: una navicella made in India che porterà sulla Luna tre astronauti indiani. Tra gli applausi non soltanto dell’India, ma di tutto il subcontinente per una volta concorde nell’esultare per il successo indiano. Perché, come sostiene l’analista pachistano Faran Jeffery, “il successo di Chandrayaan 3 sarà d’ispirazione nei decenni a venire non soltanto per i bambini indiani ma anche per i bambini di tutti i paesi in via di sviluppo, a cominciare dal Pakistan. E per questo, dobbiamo ringraziare l’India e gli scienziati indiani”.

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