La Cina fa la guerra della frutta a Taiwan, e c'è poco da ridere

Giulia Pompili

Pechino ha sospeso a tempo indeterminato le importazioni di mango da Taiwan, ufficialmente "per ragioni sanitarie". Era già successo con le ananas e altre migliaia di prodotti agricoli. Pressioni economiche e militari in vista delle elezioni a Taipei

La Repubblica popolare cinese ha deciso ieri di sospendere a tempo indeterminato l’importazione di mango da Taiwan per ragioni sanitarie. E’ l’ennesimo tassello posto da Pechino nell’ambito di un accerchiamento economico, diplomatico e militare contro l’isola che la Cina rivendica come proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata. Il mango invenduto potrebbe fare meno paura delle incursioni aeree e navali cinesi che negli ultimi mesi si sono intensificate, ma a Taipei e tra i suoi alleati la decisione di Pechino è considerata altrettanto provocatoria. Perché agisce direttamente sulla collettività, sui piccoli produttori e distributori, e così funziona da deterrente in vista delle elezioni presidenziali che si terranno a Taiwan nel gennaio del 2024. Del resto non serve essere per forza pronti alla guerra d’invasione su larga scala: se la Cina è abbastanza forte da piegare l’economia taiwanese, chi vorrebbe un candidato ostile a Pechino? Ieri Zhu Fenglian, portavoce dell’ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di stato cinese, ha detto che la decisione dell’Amministrazione generale delle dogane di sospendere le importazioni di mango da Taiwan verso la terraferma ha solide basi scientifiche: gli importatori hanno individuato un parassita nocivo Planococcus minor nei manghi taiwanesi che potrebbe rappresentare una minaccia per la produzione cinese. Eppure tutti sanno che la questione è ben più politica, ed è progressiva. Nel 2021 per le stesse ragioni “scientifiche” la Cina aveva vietato l’importazione di ananas taiwanesi – era stato un caso diplomatico internazionale, perché la presidente taiwanese Tsai Ing-wen in risposta al boicottaggio cinese aveva fatto un appello ai cittadini a consumare più ananas locali e ai paesi partner a intensificare le loro importazioni: era stato un successo politico, perché i produttori taiwanesi avevano raddoppiato le vendite di quelle che erano state ribattezzate le “ananas della libertà”.

 

Ma la Cina non si era fermata: dopo la visita a Taiwan dell’ex speaker della Camera americana Nancy Pelosi, il 2 agosto del 2022, Pechino aveva imposto il divieto di importazione di oltre duemila prodotti alimentari taiwanesi. Un paio di mesi fa Pechino ha messo nella blacklist anche l’atemoya, il frutto ibrido “ananas zucchero mela” di cui Taiwan è il principale esportatore asiatico. Attualmente, tre dei principali frutti da esportazione dell’isola – ananas, mango e atemoya – non possono essere esportati nella Repubblica popolare cinese, e sebbene alcuni prodotti minori vengano periodicamente cancellati dalla blacklist, il significato politico delle azioni di Pechino appare chiaro.

 


Secondo diversi analisti, l’ultima azione economica contro Taiwan da parte della Cina sarebbe una risposta al cosiddetto “scalo tecnico” in America del vicepresidente e attuale candidato alla presidenza per il Partito democratico progressista William Lai.  In occasione della sua visita di stato in Paraguay – uno dei tredici paesi al mondo che riconoscono Taiwan come paese – Lai si è fermato a New York e San Francisco rispettivamente il 12 e il 16 agosto scorso, dove ha incontrato rappresentanti del business ma non dell’Amministrazione americana – perché Washington non riconosce formalmente il governo di Taipei. In risposta alla visita del vicepresidente taiwanese, che dall’America ha promesso di avere “la pace come faro e la democrazia come guida”, Pechino ha lanciato nuove bellicose esercitazioni militari contro l’isola “come severo avvertimento alla collusione dei separatisti indipendentisti di Taiwan con soggetti stranieri e alle loro provocazioni”. Eppure nulla scalfisce la figura pubblica di Lai, che secondo l’ultimo sondaggio pubblicato ieri dalla Taiwanese Public Opinion Foundation è sostenuto dal 43 per cento della popolazione, mentre Ko Wen-je, candidato del Taiwan People’s Party è al 26,6 per cento (Hou Yu-ih, candidato del Kuomintang, si ferma al 13,6 per cento). 

 


Per Pechino le elezioni presidenziali di gennaio a Taiwan sono cruciali: con l’economia in rallentamento, la leadership di Xi Jinping ha bisogno di un successo nazionalista. E se la “riunificazione è inevitabile”, come dicono i funzionari cinesi, la guerra della Russia contro l’Ucraina ha mostrato quanto sia imprevedibile il risultato di un’invasione armata. Dunque la Cina sta impiegando molti sforzi per una missione impossibile: cercare di far cedere la leadership di Taiwan dall’interno, piegandola con la guerra ibrida, con la coercizione diplomatica ed economica, con la disinformazione. E i mango. 
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.