Editoriali
Scambio di prigionieri (e di fondi): un piccolo patto tra Biden e Teheran
Stati Uniti e Iran si parlano di nuovo. I primi risultati visibili dei contatti indiretti tra i due paesi su cui circolano da mesi retroscena
Ieri la magistratura iraniana ha ordianto la liberazione di almeno quattro americani che erano detenuti nel carcere di Evin a Teheran, ora sono tutti agli arresti domiciliari. Sembra il primo passo verso uno scambio di prigionieri (e di fondi congelati) su cui circolano speculazioni e retroscena da mesi, ma di cui non si erano ancora visti segnali concreti. A giugno il Wall Street Journal aveva rivelato una serie di riunioni “indirette” (come lo sono sempre quelle tra due paesi che hanno interrotto le relazioni diplomatiche nel 1979) tra Stati Uniti e Iran: erano i primi contatti noti da quando la Repubblica islamica ha cominciato ad inviare aiuti militari a Mosca – i droni Shahed – da usare nella sua guerra di aggressione all’Ucraina, e da quando ci sono state le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini mentre era in custodia della polizia religiosa a Teheran. I contatti avevano un obiettivo ben circoscritto: per Washington quello princiapale era ottenere la liberazione di alcuni prigionieri americani e, per Teheran, lo scongelamento dei fondi governativi nelle banche estere. A lato, si sarebbe discusso di come fermare l’escalation di uccisioni tra i soldati americani e i miliziani iraniani in Siria.
Ieri Siamak Namazi, parente di uno dei detenuti americani, ha confermato la notizia al Washington Post. L’accordo raggiunto prevede la liberazione dei cittadini statunitensi in cambio dello scongelamento di sei miliardi di proventi del petrolio iraniano depositati nelle banche sudcoreane che la Repubblica islamica userà “soltanto per scopi umanitari”, insieme alla liberazione di un numero non precisato di detenuti iraniani. Se non ci saranno soprese nei prossimi passaggi: è il primo successo diplomatico nelle relazioni tra Washington e Teheran da anni.
Isteria migratoria