La Cina è in crisi e si aggrappa alla Russia, costi quel che costi

Giulia Pompili

Il miracolo economico cinese è in declino, e così l’immagine internazionale di Pechino, che si butta sulla diplomazia internazionale. Ma la stabilità che interessa al Partito comunista cinese non è la stessa che vuole l'occidente

Ieri sull’agenzia di stampa russa Tass, c’erano due notizie una dietro l’altra sulla Cina. La prima dava conto del crollo delle esportazioni cinesi, il cui fatturato del periodo gennaio-luglio è diminuito del 6,1 per cento rispetto all’anno precedente. La seconda notizia riguardava il fatturato commerciale tra Russia e Cina nel periodo gennaio-luglio, che è aumentato del 36,5 per cento rispetto all’anno precedente e ha raggiunto i 134,1 miliardi di dollari. Nelle stesse ore, il nuovo-vecchio ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, che ha preso il posto dello scomparso e cancellato Qin Gang, nel corso di una telefonata con il suo omologo russo Sergei Lavrov spiegava che la Cina, sulla “crisi in Ucraina” (Pechino non ha mai cambiato la definizione del conflitto in “guerra”, seguendo pedissequamente la propaganda russa) ha intenzione di mantenere “una posizione indipendente e imparziale”.

 

La telefonata tra i due ministri degli Esteri arriva alla fine dei colloqui di due giorni ospitati dall’Arabia Saudita. A Jeddah, durante lo scorso fine settimana, i rappresentanti di una quarantina paesi – ma non la Russia – hanno partecipato a un summit per discutere della proposta di pace in dieci punti del governo ucraino. La presenza del rappresentante cinese Li Hui, inviato speciale di Pechino per le politiche euroasiatiche, è stata salutata come una notizia positiva perché a giugno, ai colloqui precedenti ospitati dalla Danimarca, la Cina aveva rifiutato di partecipare. E invece a Jeddah la Cina è andata, e Andriy Yermak, capo del gabinetto del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha fatto sapere al termine dei colloqui che “tutti i paesi” partecipanti sono d’accordo su un punto cruciale, e cioè “il rispetto della sovranità e dell’inviolabilità dell’integrità territoriale degli stati”.  Quindi anche la Cina è d’accordo sul fatto che l’unica pace possibile è quella in cui la Russia si ritira da tutti i territori occupati in Ucraina? Difficile a dirsi. Per ora, la cosa che conta di più a Pechino è che l’immagine della seconda economia del mondo sia quella di un paese di pace. Non è un caso se una dichiarazione del ministero degli Esteri di Pechino, ieri, sottolineava il fatto che a Jeddah “il ruolo positivo della Cina nel promuovere i colloqui per la pace è stato pienamente riconosciuto”. E’ l’immagine che conta, non il reale successo diplomatico – la fine dei bombardamenti su strutture civili ucraine da parte della Russia, per esempio. La telefonata tra Wang Yi e Lavrov al termine dei colloqui di Jeddah, secondo diversi analisti dimostrerebbe in realtà il ruolo cinese di negoziatore – se per conto di qualcuno, di sicuro per conto di Mosca – e non di mediatore.  E anche il fatto che i due paesi vogliano “lavorare a stretto contatto” per promuovere un “mondo multipolare” attraverso la “democratizzazione delle relazioni internazionali”, un mondo cioè dove Cina e Russia pesano almeno quanto l’America e i suoi alleati. Due paesi che per i propri interessi nazionali sono disposti a militarizzare e conquistare con la forza, come la Cina sta facendo nel Mar cinese meridionale e come vorrebbe fare a Taiwan.

 

 
Ma c’è un problema di fondo. Il miracolo economico cinese è in declino, e così l’immagine internazionale della Cina. E’ anche per questo che la leadership di Pechino ha bisogno di un nuovo sogno nazionalista e d’influenza strategica internazionale. Deve mostrare al mondo, soprattutto ai paesi che possono essere usati nella battaglia ideologica contro l’America, di essere un alleato che promuove la pace e la stabilità. Ma non è mai per niente. Inoltre, non è detto che l’idea di stabilità della Cina sia la stessa dei paesi occidentali. Anche nella crisi in Niger e in generale nell’area del Sahel, scriveva qualche giorno fa Jevans Nyabiage sul South China Morning Post, Pechino cerca di proteggere i suoi interessi diretti – le sue miniere, le sue infrastrutture. Secondo David Shinn, esperto di relazioni tra Cina e Africa alla George Washington University, la più grande differenza tra America e Cina nella ricerca della stabilità politica nel Sahel è che “mentre Washington preferisce lavorare con i leader democratici, Pechino è disposta a collaborare con governi democratici o autoritari per mantenere la stabilità”.

 


Sicurezza nazionale e geopolitica hanno ormai da un pezzo superato la priorità della crescita economica nella strategia della leadership cinese.  La forza centrifuga si è fermata, e quest’aria grigia di crisi e di stretta sempre più autoritaria si avverte anche nell’osservare l’involuzione del sistema di potere del Partito comunista cinese. Prima la rimozione dal ruolo di ministro degli Esteri del fedelissimo di Xi Jinping, Qin Gang – scomparso dai media e cancellato con vaghe dichiarazioni sul suo stato di salute. Poi le purghe improvvise dentro alle Forze armate.

 

 

La scorsa settimana sono stati sostituiti i vertici della Forza missilistica dell’Esercito popolare di liberazione, che sovrintende su testate missilistiche e nucleari, l’unità istituita da Xi che viene considerata centrale per la strategia di deterrenza militare cinese. Il generale Li Yuchao, nominato a capo dell’unità qualche mese fa, e il suo vice, erano da mesi scomparsi dai media. Come scriveva ieri Amelia Nierenberg sul New York Times, lo scossone nei vertici delle Forze armate cinesi, come durante il periodo delle purghe anticorruzione volute da Xi non appena arrivato alla leadership, aumenta il potere del presidente cinese e centralizza ancora di più le decisioni. La politica ieratica del Partito guidato da Xi Jinping è sempre più lontana dal normale funzionamento della società cinese, piegata in questi giorni da devastanti eventi climatici che non fanno che aggravare una situazione economica in bilico. La disoccupazione giovanile nelle aree urbane cinesi ha raggiunto il 21.3 per cento a giugno: il sogno di un futuro migliore di quello dei propri genitori, di un progresso senza limiti per un cinese appena laureato non esiste più. Ai giovani ora si richiede di fare più figli – per mettere un freno al declino demografico dovuto a più di quarant’anni di politica del figlio unico – e anche di mettersi al servizio dello spionaggio: attraverso un nuovo account sull’app WeChat, la scorsa settimana il ministero della Sicurezza nazionale di Pechino ha invitato “tutti i membri della società” a contribuire al controspionaggio, offrendo ricompense e protezione a chi fornisce informazioni.
 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.