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Parla l'imputato. L'importanza di diffondere i discorsi dei dissidenti

Michele Magno

Nella Russia di Putin, l’unico posto dove risuonano parole di libertà è il tribunale. In tutto il resto del paese è praticamente impossibile farlo senza subirne le conseguenze

L’apatia è stata il male oscuro della generazione succeduta alla resa di Hitler, quando la spinta ideale della Rivoluzione di ottobre, già fiaccata dal terrore staliniano, aveva lasciato il posto a un totale fatalismo. Ma prima ancora dell’apatia sovietica c’era stata la “len”, ovvero “quell’apatia indolente che nutriva la sottomissione al potere dei ceti subalterni, sorella gemella di quell’immobilismo morale e insieme meccanico che contraddistingue Oblomov, il proprietario terriero malato di letargia spirituale del romanzo omonimo di Ivan Goncharov” (Giorgio Ferrari, L’arca russa, La Vita Felice, 2023). In Oblomov, pubblicato nel 1859, il giovane Ilja Ilich trascorre la maggior parte del suo tempo a letto o sul suo divano, privo di desideri e di interessi, evitando ogni tipo di sforzo fisico o mentale, adagiato nella sua oziosa sciatteria e nella sua indolenza sociale. La sua indifferenza, “ravnodushie”, era figlia di un’epoca intera, quella di una Russia imperiale nella quale vigeva la millenaria separazione fra la piccola nobiltà e la servitù della gleba. 

 

“Quella che viene chiamata apatia è sempre esistita tra i russi: sono sovietici, è un retaggio ancora forte. E’ una questione di genetica, di psichiatria, di sociologia, di psicanalisi”, ha spiegato con ironia Valentina Melnikova in un’intervista al settimanale francese “La Croix L’Hebdo” (25 febbraio 2023). A settantasette anni, la veterana della lotta per i diritti umani è un’instancabile osservatrice delle contraddizioni della società civile del suo paese. Presidentessa del Comitato delle madri dei soldati, nel corso degli oltre vent’anni di Vladimir Putin al Cremlino, dalle guerre in Cecenia fino all’attuale “operazione militare speciale”, è sempre stata al fianco delle donne, mogli e madri, animate da un desiderio di verità a cui si contrappone una debole memoria del passato. Nel 2017 a San Pietroburgo non si vedeva un manifesto, uno striscione, l’avviso di una celebrazione, di una mostra, di un convegno che ricordasse in qualche modo il centenario della nascita dell’Urss. La memoria di Lenin si era ridotta a una lapide di granito incastonata fra le vetrine di un McDonald’s e il sontuoso ingresso di una concessionaria della Rolls-Royce. E’ finito così il padre della rivoluzione: imbalsamato a Mosca e dimenticato nell’antica capitale dell’impero. Della sommossa nelle fonderie di Vyborg, della Fortezza di Pietro e Paolo affollata di detenuti politici rastrellati dall’Ochrana, del colpo di cannone della fregata “Aurora” che segnava l’assalto al Palazzo d’Inverno, si era persa ogni traccia.

 

“Proteggi le mie parole” è il volume curato dai ricercatori di Millennial Sergej Bondarenko e Giulia De Florio che raccoglie 25 discorsi di imputati

 

La rimozione del passato continua anche oggi, con la messa fuori legge di Memorial, l’Ong fondata nel 1987 da Andrej Sacharov insieme con altri dissidenti sovietici per documentare l’orrore dell’universo concentrazionario staliniano. La Corte suprema russa ne ha ordinato la chiusura nella primavera del 2022 in quanto “agente straniero che riceve finanziamenti dall’estero”. Pochi mesi dopo, questa specie di “quinta colonna” è stata insignita dal Comitato norvegese – insieme all’attivista bielorusso Ales Bialiatski e all’ucraino “Center for civil liberties” – del Nobel per la pace, per l’impegno profuso nel “documentare i crimini di guerra, le violazioni dei diritti umani e gli abusi di potere in Russia”. Il lettore italiano può farsi un’idea precisa di tale impegno grazie a un volume curato da due ricercatori di Millennial, Sergej Bondarenko e Giulia De Florio, impreziosito da una prefazione di Marcello Flores (Proteggi le mie parole, edizioni e/o). Nelle sue pagine sono raccolti venticinque discorsi di imputati in processi a sfondo politico, imbastiti nella maggioranza dei casi dalle diciotto agenzie di sicurezza che fanno capo al Cremlino. Non soltanto, quindi, dal potentissimo Gru (i servizio informazioni delle forze armate), dall’Fsb (l’ex Kgb) e dal Svr (l’agenzia di spionaggio estero), strutture cruciali che hanno consentito a Putin di selezionare gli oligarchi amici e di eliminare, imprigionare, mandare in esilio i meno graditi. Vent’anni fa il neopresidente aveva convocato gli uomini d’affari che si erano accaparrati le immense risorse industriali del paese concedendo loro di tenersi le ricchezze – quasi sempre fraudolentemente accumulate – a condizione che si mantenessero lontani dalla politica. Un particolare suona beffardo e anche sinistro: il summit per la spartizione del potere avvenne nella dacia di Kuntsevo, la stessa dove dimorava Iosif Stalin e dove morì il 5 marzo 1953. Per alcuni di quegli oligarchi, infatti, la circostanza è stata infausta. Del resto, la loro personale fortuna è come un birillo su una pista di bowling: basta un tiro azzeccato e cade con fragore. E non ci sono guardie del corpo che tengano: quelle di Boris Berezovskij, di Michail Chodorkovskij e di Vladimir Gusinskij – rispettivamente ras di Aeroflot, di Yukos e delle tv – hanno potuto fare ben poco di fronte ai siloviki inviati dallo zar per arrestarli. E ben poco hanno potuto fare Anna Politkovskaja e Alexander Litvinenko, Boris Nemtsov e Sergej Skripal, avvelenato con la figlia – ma sopravvissuti entrambi – con lo stesso agente nervino inalato da Aleksei Navalny. 

 

Studenti, artisti, professori, pubblicisti: figure della società civile che mai avrebbero pensato di dover entrare in scena per difendersi

 

A eccezione dello stesso Navalny, gli attori di quella vera e propria drammaturgia processuale che è rappresentata nel libro sono ignoti al grande pubblico. Si tratta di politici, studenti, storici, artisti, professori, pubblicisti. Adolescenti e persone in età avanzata. Figure della società civile che mai avrebbero pensato di entrare in scena per difendersi da accuse infamanti. Come avvertono i curatori, la scelta di presentare i discorsi pronunciati tra il 2017 e il 2022 è stata fatta per mostrare che oggi, come ai tempi dell’Urss, l’ultima dichiarazione in un’aula di tribunale è ancora l’ultimo spazio di libertà in cui poter chiamare le cose col proprio nome: violenza, regime, ingiustizia, guerra (parola ora proibita). In tutto il resto del paese è praticamente impossibile farlo senza subirne le conseguenze: arresto, multa, reclusione, colonia penale. Una sola o tutte insieme. Nell’anno alle nostre spalle solo lo 0,13 per cento dei processi politici celebrati in Russia si è concluso con l’assoluzione dell’imputato. Un dato impressionante, che riflette l’impennata delle inchieste giudiziarie, dal verdetto scontato, a carico soprattutto di quanti hanno criticato l’invasione dell’Ucraina. Non fortuitamente un terzo dei testi selezionati è posteriore al 24 febbraio 2022, ed è legato alle posizioni pacifiste e antimilitariste dei dissidenti incriminati per attività sovversive. Ma già nel primo discorso (dell’agosto 2017) si parla del Donbass: il caso di Maksim Smysliaev è un esempio lampante dell’occhiuto controllo che gli apparati di sicurezza esercitano sulle narrazioni che si discostano dalla propaganda ufficiale sulla “denazificazione”: si intrufolano nelle chat, sorvegliano i video online, i post sui social network. Anche un videogioco può diventare motivo di arresto, come quello ideato dal quattordicenne Nikita Uvarov, che sul suo computer aveva riprodotto la sede dell’Fsb per farla saltare in aria. E’ palese la drastica torsione del concetto di democrazia rappresentativa, soprattutto di quel bilanciamento dei poteri che ne costituisce il muro portante. Viene sottratta alla magistratura ciò che rimane della propria indipendenza: il presidente può infatti rimuovere a piacere i vertici del potere giudiziario. Viene inoltre rimaneggiata la Costituzione, che – sono parole di Putin – “deve avere la precedenza sul diritto internazionale”. Come a dire che le risoluzioni dell’Onu, del Consiglio d’Europa e i verdetti del tribunale dell’Aja non hanno più valore sul territorio russo. In altri termini, il potere – quello vero – passa a quel Consiglio di sicurezza con a capo Putin, un tempo organo consultivo e ora di rango costituzionale, e all’ancora nebuloso Consiglio di stato, una sorta di copia sbiadita del Politburo di gloriosa memoria. E tutto ciò è avvenuto alla luce del sole, non nelle stanze segrete di un complotto. Del resto, l’ex “apparatcik” di Leningrado aveva stabilito con inusitata franchezza la fine dell’era liberaldemocratica nel mondo contemporaneo già nel 2019, in una famosa intervista al Financial Times. E, poiché la cautela non è mai troppa, si è coerentemente provveduto a varare nuove norme che impediscono di candidarsi alla presidenza a chi non ha soggiornato ininterrottamente per più di venticinque anni in Russia o ha posseduto un passaporto straniero (come Aleksei Navalny e Michail Chodorkovskij). 

 

“Samizdat” in russo vuol dire letteralmente “pubblicato da sé”. Negli anni Cinquanta e Sessanta indicava i testi, battuti a macchina o fotocopiati, fatti circolare clandestinamente per aggirare l’occhiuto e asfissiante controllo del Kgb. E’ attraverso questi canali che nel 1957 arriva a Milano, a Giangiacomo Feltrinelli, Il Dottor Zivago, il libro iconico di Boris Pasternak che gli varrà l’anno successivo il Nobel per la letteratura. Ebbene, poiché il processo in Unione sovietica era in realtà nient’altro che una tragicommedia teatrale, l’ultima dichiarazione degli imputati, proprio grazie alla circolazione clandestina in “samizdat”, era l’unico mezzo mediante cui esprimere liberamente le proprie opinioni. “Sapevo che mi sarebbe stata concessa un’ultima dichiarazione. E ho pensato se non fosse meglio rinunciare o limitarmi a qualche frase di rito. Poi, però, ho capito che questa poteva essere non solo l’ultima dichiarazione che avrei pronunciato al processo, ma l’ultima in tutta la mia vita […]”. Così il 14 febbraio 1966 lo scrittore Julij Daniel’ cominciò la sua “poslednie slovo”, la sua “ultima parola”. Il suo discorso, come quello di Andrej Sinjavskij, anch’egli coinvolto nel medesimo processo (tutti e due erano accusati di rifiutare i canoni del realismo socialista), è un “samizdat” ante litteram. Daniel’ era non solo consapevole che la sua sentenza era già stata scritta, ma anche che la maggior parte degli spettatori era composta da poliziotti e comparse prezzolate. Eppure decise di parlare lo stesso, sapendo che la sua voce sarebbe stata memorizzata e fatta circolare clandestinamente attraverso il “samizdat”. Di queste voci è piena la storia russa, e quelle registrate in Proteggi le mie parole ci restituiscono un ritratto drammatico dell’infimo livello di autonomia della magistratura e dei diritti della difesa, di processi farsa costruiti per intimidire l’opinione pubblica e per spegnere i focolai del dissenso.

 

Come in Urss, l’ultima dichiarazione in tribunale è ancora l’occasione per chiamare le cose col proprio nome: regime, guerra

  

Sono trascorsi oltre trent’anni dal 25 dicembre 1991, e l’Urss non c’è più. Al suo posto, una superpotenza che l’occidente ha forse compreso solo a metà. Quella “democrazia incompiuta” che Washington e i suoi alleati avevano considerato come una tappa verso una società liberale, si è lentamente trasformata in un ibrido che oscilla tra la nostalgia della Russia zarista e la nostalgia della Russia sovietica, grazie anche all’appoggio dottrinale del Patriarcato ortodosso, non senza il retroterra mistico-letterario fornito da figure opache come Ivan Ilyn, Lev Gumilëv e Alexander Dugin. Tutti e tre in qualche misura profeti di una missione salvifica e redentrice per la Nuova Russia, una terza via fra “l’immoralità pagana” dell’Europa e l’orrore del bolscevismo, il cui destino manifesto – ed è stato Gümilev, figlio della poetessa Anna Achmatova a sostenerlo – sono i leggendari “calzari asiatici” invocati dal monaco-filosofo Konstantin Leontiev, che nel saggio L’Est, la Russia, gli Slavi già nel 1865 invitava i russi a “scuoterne via la polvere romano-germanica” (su questo punto si sofferma con note inedite Giorgio Ferrari, op. cit.). Quanto a Dugin, intellettuale in bilico fra Heiddeger e Evola con pose piuttosto caricaturali, è il pilastro dell’autoritarismo di destra cui si ispirano i piani alti del Cremlino. In questo senso, Vlad “the Mad” – come è stato ribattezzato – è l’architetto di un contratto sociale stipulato con il popolo, basato sullo scambio tra sicurezza e libertà. Una libertà, come si disse nei decenni terminali del Novecento, che nel corso di un millennio i russi avevano respirato soltanto per quattro mesi: dall’ottobre 1917 al gennaio 1918. Troppo poco per affezionarsene. Più facile, invece, applaudire le imprese belliche nel Dagestan, in Cecenia, in Georgia, in Crimea, nella Siria e adesso in Ucraina. Una politica muscolare che pare aver sedotto migliaia di giovani e perfino i loro padri: molti dei quali – secondo un sondaggio demoscopico recente da prendere con le pinze – sognano che i loro figli entrino a far parte delle forze speciali e ammirano senza riserve Stalin, non più oscurato dalla vergogna delle purghe e dei milioni di morti di carestia, ma considerato un padre della patria come Puskin considerava Pietro il Grande.

 

Secondo i dati dell’associazione per i diritti umani Ovd-Info, sono oltre ventimila gli arrestati per proteste contro l’aggressione a Kyiv. Si tratta di una piccola minoranza, la quale tuttavia attesta l’esistenza di un barlume di opposizione al regime putiniano. Da qui l’inasprimento delle misure repressive, volte in primo luogo a marginalizzare i media e le organizzazioni “ribelli” come Meduza e la più longeva Ong per i diritti umani, il Gruppo Helsinki di Mosca. Un arsenale di leggi e provvedimenti restrittivi che purtroppo incontra il favore di quei cittadini che sono sensibili alla retorica di un occidente che cerca di umiliare e distruggere la Santa Madre Russia. L’inizio della “operazione militare speciale”, un anno e mezzo fa, aveva assunto quasi le sembianze di una vendetta. I circoli più radicali non nascondevano di voler “dare una lezione all’occidente” e oggi, nonostante le difficoltà sul fronte militare, credono ancora fermamente all’inevitabile vittoria. Ma la vera vittoria di Putin è stata quella di avere anestetizzato i gangli vitali della Federazione, bandendo ogni pensiero critico. Anche le scuole sono state utilizzate a questo scopo. Le riunioni fra genitori e insegnanti di inizio trimestre si sono trasformate in lezioni di storia impartite da un ufficiale dell’esercito che, salito in cattedra, spiega la necessità di “denazificare” l’Ucraina.

 

Molti padri – secondo un sondaggio da prendere con le pinze – sognano che i loro figli entrino a far parte delle forze speciali

 

Ogni 9 maggio, data simbolo della “Grande guerra patriottica”, Memorial organizzava un concorso di storia per gli studenti dai quattordici ai diciotto anni. Gli elaborati pubblicati confermano il prestigio di cui gode fra la gioventù la figura di Stalin, l’eroe che ha sconfitto il Führer. D’altronde, a differenza della Germania post-nazista, nella Russia post-sovietica gli sforzi per produrre una riflessione critica sul passato nazionale sono stati rari. Sembra trascorso un secolo, ma erano solo dieci anni fa, da quando decine di migliaia di manifestanti gridavano “Ukhodi!” nelle strade di Mosca. Quel “Vattene!” era rivolto a Vladimir Putin. Ma ben presto la richiesta di libertà politiche, proveniente dalla classe media e da una esigua élite liberale, è stata addomesticata e cloroformizzata anche attraverso l’uso intensivo di spietate procedure accusatorie a sfondo politico. Tra le loro vittime ci sono anche i venticinque protagonisti di Proteggi le mie parole (titolo che riprende un verso del poeta Osip Mandel’stam). Venticinque uomini e donne capaci di riscattare con il loro coraggio la passività e l’acquiescenza di milioni di loro concittadini.

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